Un arrotino con il suo carretto in un centro urbano
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LA tradizione della provincia di Cosenza annovera una lunga serie di antichi mestieri che, seppur ampiamente diffusi nella società di molti anni fa, ad oggi sono venuti meno o quasi lasciando il passo alla tecnologia e alle metodologie di lavoro più moderne. Il boom economico per molti di questi mestieri ha rappresentato il de profundis ponendo fine a tradizioni centenarie.
ANTICHI MESTIERI: L’AMMULAFURBICI
Senza dubbio uno dei più risalenti lavori di cui si ha ricordo è quello dell’arrotino detto anche, in dialetto calabrese, “l’ammolafùrfici” (che tuttavia, seppur con un’immagine sbiadita rispetto al passato non è del tutto scomparso).
Nel territorio di Cosenza e provincia l’arrotino si spostava di paese in paese richiamando l’attenzione con il tipico grido “Arrotino, arrotinoo!”. Le casalinghe, udito il richiamo, si avvicinavano al carretto dell’arrotino portando con sé forbici, coltelli o altri utensili da affilare. Il carretto utilizzato, detto trabiccolo, era formato da una ruota più grande in avanti e da una struttura in legno con un asse di ferro nella quale era inserita la mola fatta di pietra.
Era presente, inoltre, un contenitore di latta da cui fuoriusciva dell’acqua che raffreddava e puliva la pietra utilizzo dopo utilizzo. La ruota anteriore più grande aveva sia la funzione per il trasporto del carretto che quella di mettere in movimento la ruota più piccola a cui era collegata la mola generando, quindi, il meccanismo idoneo all’affilatura delle lame degli utensili. Nella parte posteriore era solitamente presente una cavità in cui l’arrotino soleva riporre pinze, martelletti e tutte le attrezzature utili al mestiere.
Attirata, quindi, l’attenzione di una folta clientela di massaie veniva aperto il “rubinetto” dal quale fuoriusciva un filo d’acqua sulla mola e veniva azionato il pedale presente sotto la pietra che metteva in movimento la mola consentendo all’abile arrotino di posizionare gli utensili sulla pietra ottenendo lame affilati come rasoi.
Percepito il compenso per l’attività svolta l’arrotino si rimetteva in strada alla ricerca di altri attrezzi da affilare. Un mestiere antico quello dell’arrotino e quasi dimenticato essendo diventata ormai una vera e propria rarità udire per le vie dei paesi il suo caratteristico grido di richiamo.
IL CARBONAIO
Il carbonaio era un mestiere piuttosto diffuso nelle aree montane della provincia cosentina. Il carbone, infatti, era utilizzato dalle famiglie sia per alimentare le cucine che per il riscaldamento in un’epoca in cui non erano ancora presenti le odierne fonti di energia come elettricità e gas.
Il lavoro svolto dai carbonai era estremamente duro e consisteva nell’utilizzo di legna secca e tagliata in tocchi che veniva accatastata in strati sovrapposti fino a formare una struttura conica lasciando al centro, dalla base per tutta l’altezza, un foro che formava una sorta di camino che veniva poi usato per accendere la così detta carbonaia. L’agglomerato di legnami così disposto veniva, quindi, ricoperto da una sorta di rivestimento fatto di zolle di terra.
La costruzione della carbonaia richiedeva un’attività estremamente meticolosa ed era frutto di anni di esperienza anche nella scelta della legna più adatta che era solitamente quella di quercia, faggio o castagno. La successiva fase di lavorazione prevedeva l’inserimento all’interno del foro di una certa quantità di brace incandescente.
Una volta verificata l’accensione della legna l’apertura veniva chiusa lasciando, quindi, che il fuoco scoppiettasse all’interno della carbonaia. La combustione così generata continuava sotto il costante controllo del carbonaio che aveva cura di creare delle piccole fessure, laddove fosse necessario aumentare l’areazione. Trascorsi circa dieci giorni veniva rimosso lo strato isolante e il carbone veniva raccolto in appositi sacchi e destinato ai tipici utilizzi domestici dell’epoca.
ANTICHI MESTIERI: U SAMPAULARU
Un mestiere che oggi non solo è caduto in totale disuso ma che probabilmente poche persone conoscono è quello del “sampàularu”. Il lavoro consisteva nel recarsi nelle campagne e catturare le serpi o altri rettili come vipere o bisce che infestavano le fattorie dei malcapitati.
Si tratta di un’attività che oggi potrebbe essere definita a dir poco bizzarra ma che in passato nelle campagne risultava molto utile e in alcuni casi addirittura provvidenziale. Molti si affidavano a questa particolare ma emblematica figura della tradizione contadina per la bonifica dei propri possedimenti rurali. I sampaulari erano soliti portare con sé una tracolla a cui veniva attaccata una sorta di cassetta provvista di fori in cui veniva imprigionati i diversi rettili catturati.
Il metodo utilizzato per attirare i serpenti era quello di un richiamo tramite una sorta di fischietto che riproduceva quasi lo stesso verso dei rettili che venivano immobilizzati con una specie di forca e privati dei denti velenosi facendogli mordere con vigore un’apposita pezza di lana (in tal senso ottima la ricostruzione di Gerardo Giraldi nel libro “Rende: Usanze, tradizioni, costumi”).
Il peculiare modo che i sampaulari adoperavano per la cattura dei rettili ha contribuito ad alimentare nella tradizione popolare una visione quasi mistica di questo personaggio che veniva considerato non solo un incantatore di serpenti ma anche una sorta di guaritore. Al sampaularo erano, infatti, attribuite doti curative contro i morsi delle vipere e ciò per l’accurata conoscenza di erbe in grado di combattere il letale effetto del veleno.
La credenza popolare riteneva i sampaulari addirittura immuni dal morso delle vipere e che fosse stato San Paolo ad attribuirgli queste particolari virtù, da qui l’appellativo con cui erano noti. Negli atti degli Apostoli si narra che San Paolo durante la permanenza a Malta venne morso da una vipera mentre stava raccogliendo un fascio di legno da ardere. Tra lo stupore della popolazione presente quel morso non sortì sul santo alcun effetto. Da allora la credenza religiosa ha attribuito a San Paolo un potere di guarigione dei morsi di vipera.
ANTICHI MESTIERI: U CAPILLARU
Un altro lavoro praticato in tempi ormai lontani è quello del “capillaru”. Si trattava di un ambulante che scambiava utensili di vario tipo con capelli che avanzavano dai tagli o dalle pettinature delle donne. Quest’ultime, infatti, non solevano buttare i capelli tagliati o quelli che – durante la quotidiana acconciatura- restavano nei pettini utilizzati. Al momento opportuno, infatti, al passare dell’ambulante era possibile barattarli con qualche utile oggetto.
Talvolta trecce e capelli venivano, invece, venduti per guadagnare piccole somme di denaro che, però, nei periodi più duri potevano risultare utili all’economia della casa. I capelli venivano poi rivenduti per la realizzazione di parrucche. Questo peculiare mestiere è andato via via ad estinguersi dopo l’introduzione delle fibre sintetiche e il venir meno, più in generale, della figura del merciaiolo ambulante.
Sono molti gli antichi mestieri dei tempi che furono, mestieri di cui ci rimane solo il lontano eco dei racconti tramandati di generazione in generazione grazie ai quali tanti di questi lavori, parte integrante per decenni dell’economia locale, continuano ad essere ricordati come aspetto fondamentale degli usi e delle tradizioni cosentine.
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