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Giuseppe Lento con la divisa da militare prima di partire per il fronte

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Da Luzzi all’inferno della Russia: l’odissea di Giuseppe Lento

MIGLIAIA di soldati italiani vennero catapultati senza speranze nell’inferno di ghiaccio della Russia durante la Seconda guerra mondiale tra il 1941 e il 1942. Vite spezzate dalle bombe, dal gelo e dalla fame. Ma ci furono anche le esistenze “sospese” di chi ha subito la tragica esperienza della prigionia. Il limbo di chi per anni è sopravvissuto a stenti e privazioni inimmaginabili. Dimenticati da una patria che nel frattempo subiva cambiamenti epocali ma non dalle famiglie che anelavano di riabbracciare i propri cari sperando di ricevere notizie dal fronte orientale.

Alla famiglia di Giuseppe Lento, nato a Luzzi il 18 marzo del 1907 e partito in Russia nel 1942, una comunicazione ministeriale arrivò nel 1946 a oltre un anno dalla fine del conflitto bellico. La notizia era stato un colpo al cuore che vanificava ogni speranza: il loro caro era deceduto in qualche località impronunciabile dell’Unione Sovietica di Stalin. Al pari di tanti altri sventurati mandati in guerra da Mussolini anche lui non avrebbe fatto più ritorno a casa.

La moglie, i figli, i parenti e gli amici si erano ormai rassegnati, consolati forse dal fatto di aver almeno avuto la “fortuna” di conoscere la sorte del loro congiunto. In tutta Italia tante famiglie hanno infatti atteso invano per anni notizie ufficiali sui prigionieri e sui dispersi. Venne anche celebrato il funerale e la famiglia, come si usava all’epoca, osservò tutte le tradizionali prescrizioni inerenti al lutto.

Poi un giorno uno dei pochi telefoni presenti in paese squillò. Dalla locale stazione ferroviaria un uomo esausto ed emaciato chiedeva a qualcuno di mettersi in contatto con la sua famiglia. Quell’uomo era Giuseppe Lento. Non aveva trovato la morte in Russia come qualche funzionario aveva laconicamente comunicato.

IL RITORNO DI GIUSEPPE LENTO A LUZZI

L’emozione e l’incredulità della moglie e dei famigliari nel rivederlo a casa furono indescrivibili. La figlia Linda era una bambina e non ricorda per ovvi motivi il ritorno del papà. Ma i racconti del reduce sono ben impressi nella sua memoria. «Quando mio padre ritornò in Calabria indossava come vestito una sorta di sacco di juta e aveva una lunga barba incolta. Ci confessò che le scarpe che aveva, ormai ridotte a brandelli, le aveva prese a un compagno morto durante la prigionia perché le sue erano malandate da tempo», ricorda Linda.

Giuseppe Lento da anziano

Per settimane non riuscì a ingerire cibo solido e ci volle diverso tempo per ristabilirsi. L’esperienza drammatica in Russia segnò, al pari di tutti gli altri reduci, la vita di Giuseppe che ricordava spesso le sofferenze patite sul fronte orientale. «Prima di essere catturato mio padre e i suoi commilitoni tentarono una disperata fuga ma furono braccati dall’Armata Rossa», ricorda la donna.

«Mio padre mi raccontava che i prigionieri furono incolonnati e costretti a marciare per ore nella neve con temperature rigidissime. Giunti a destinazione un suo compagno d’armi vide a terra la buccia di un frutto o un pezzo di pane – non rammento con precisione – e sopraffatto dalla fame istintivamente si chinò per raccoglierlo e mangiarlo. Una guardia del campo gli sparò senza esitazione. Lo uccise sul colpo come se niente fosse», racconta Linda.

Soldati impegnati nella campagna italiana di Russia

La prigionia fu lunga e dolorosa. Gli italiani non si erano macchiati delle atrocità commesse dai nazisti durante l’occupazione ma erano pur sempre soldati di un esercito invasore e il trattamento che i sovietici riservarono loro fu molto duro. I lavori forzati nel gelo dell’Urss erano estenuanti. Giuseppe si ammalò, verosimilmente di tifo, e venne trasferito in un ricovero di fortuna dove ricevette cure minime ma provvidenziali. «Questo gli salvò la vita. Il suo stato di salute non gli consentiva di lavorare. I suoi compagni alla spicciolata invece trovarono la morte. Del suo gruppo fu uno dei pochi a far ritorno a casa».

LA PRIGIONIA IN UZBEKISTAN

Giuseppe venne rinchiuso dal 1943 al 1945 nel campo di concentramento numero 26 dell’Asia centrale sovietica in Uzbekistan dove era funzionante un cotonificio. Un commilitone di Giuseppe, che condivise con lui la prigionia, rimpatriato anch’egli nel 1946, di professione geometra e originario dell’Italia settentrionale, volle disegnare uno schizzo del campo di prigionia. Inviò negli anni Ottanta il disegno a Giuseppe con cui riuscì a mettersi in contatto. Un modo per tramandare il doloroso ricordo della detenzione e soprattutto per non dimenticare i compagni morti.

Il disegno del campo in Uzbekistan realizzato da uno dei prigionieri italiani

L’odissea di Giuseppe si concluse, come detto, con il rimpatrio nel 1946. Ma le sofferenze non erano terminate. Il viaggio di ritorno fu affrontato infatti in condizioni terribili. «Fummo costretti a stare in piedi per giorni su un carro bestiame, stipati come sardine. Non riuscivamo a posare entrambi i piedi a terra tanta era la calca. In molti morirono durante il viaggio», era solito raccontare con mestizia Giuseppe a chiunque gli chiedesse del fronte russo.

Giuseppe si spense all’età 86 anni circondato dall’affetto dei suoi cari. La sua incredibile vicenda resta una delle tante testimonianze di una delle pagine più drammatiche della storia italiana.

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