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Emanuele Giacoia in una foto pubblicata a corredo delle sue rubriche sul Quotidiano

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Ciao, Emanuele. Di solito non si comincia così quando senti forte l’esigenza di ricordare chi non c’è più. Nel caso di Emanuele Giacoia, però, è forse questo l’unico modo di rompere la cappa di tristezza che la notizia della sua scomparsa ti ha fatto calare addosso.

Forse perché ti regala l’illusione che lo risentirai al telefono, o lo vedrai ancora passare dal giornale raggiungendo l’ingresso con la fatica degli anni. Forse perché le persone a cui si è voluto bene non muoiono mai, nonostante il dolore immenso che può significare per la famiglia, per un figlio, per una figlia, la perdita del papà.

E anche chi aveva solo sporadici incontri e sparute conversazioni telefoniche con Emanuele oggi è triste. Per tante e misteriose ragioni per le quali è davvero difficile trovare delle spiegazioni. Per cogliere la portata professionale di un gigante dell’informazione non occorre essere giornalisti. Lo sanno tutti quelli che per tantissimi anni lo hanno apprezzato. Per avergli voluto bene (e oggi essere tristi) non è stato necessario frequentarlo assiduamente. Uno sguardo, una battuta, uno scambio di sorrisi senza secondi fini e il legame era fatto. Così, con leggerezza. Che non è superficialità.

Addio al direttore Emanuele Giacoia

Due anni fa Emanuele Giacoia ha scritto un ricordo per la morte di un altro collega illustre, Vincenzo D’Atri. In un paio di frasi c’è tutta una filosofia di vita: “…Questi ultimissimi anni del suo percorso terreno – novant’anni li aveva compiuti, e tra coetanei, io ne ho due in più, ci si intende ormai con poche parole – erano stati anni difficili, complicati a causa della sua salute. Era sempre seguito dalle amatissime figlie, e ricordo – ha scritto Emanuele – a suo tempo quanto ne parlavamo di loro e dei miei figli e di che cosa li attendesse là fuori, nel loro futuro. Eravamo speranzosi, spesso anche preoccupati, ma poi spesso si finiva per sorridere, per planare sui problemi della vita senza lasciarci mai abbattere, un po’ per dirla con Italo Calvino quando parla del saper essere leggeri”.

Dietro una battuta di Emanuele c’era un pensiero profondo. Dietro ogni noticina pubblicata in questi anni nelle pagine sportive c’era la passione di una vita. Dietro ogni “cronachetta” pubblicata in questi anni sul Quotidiano c’era tanto altro rispetto al piccolo episodio di cronaca cittadina che serviva da spunto. C’era l’ironia, quella che spesso è persino “faticoso” cogliere e il cui esercizio fa parte del patrimonio dei grandi. Ciao, Emanuele.

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Stefano Mandarano

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