Mara Tunno
8 minuti per la letturaMara Eliana Tunno ha 30 anni, è originaria di Sibari in provincia di Cosenza, ha una laurea in psicologia conseguita all’università di Padova e con l’organizzazione umanitaria Medici senza frontiere è partita per il campo di Kara Tepe a Lesbo, nel dicembre scorso.
“Lavorare nel sociale è qualcosa che mi appartiene da sempre – spiega -. Anche da studentessa cercavo di rendermi utile sia negli ospedali che nei centri di accoglienza. Credo che ognuno di noi durante le emergenze umanitarie, debba fare la sua parte e non rimanere seduto a guardare in Tv cosa accade nel mondo. Io l’ho sempre sentita l’esigenza di stare in prima linea”.
Mara è nata in Germania perché i suoi genitori dopo essersi sposati sono stati costretti a trasferirsi per lavoro, ma dieci anni dopo sono ritornati in Calabria. La sua prima esperienza di volontaria all’estero l’ha fatta in Cambogia con una piccola associazione umanitaria italiana.
Nel 2017, dopo la laurea, ha lavorato un anno in un ospedale psichiatrico di Basilea. Poi, tornata in Italia per fare gli esami si Stato, è ripartita per il sud est asiatico: Tailanda, Cambogia, Laos. Questa esperienza, più delle altre, le ha fatto comprendere fino in fondo qual era la strada che voleva provare a percorrere. È ritornata in Svizzera ma solo per licenziarsi e ritornare in Cambogia. Al suo rientro, nove mesi dopo, ha provato ad entrare nell’organizzazione di Medici Senza Frontiere, il suo sogno da sempre: “Ho fatto la domanda in agosto e a dicembre sono partita. Per me entrare in MSF era un sogno che coltivavo da quando ero molto piccola e appena ho avuto i requisiti necessari, non ho perso tempo e mi sono proposta”.
Mollare un lavoro nella perfetta Svizzera per andare ad operare in un campo profughi a Lesbo, è difficile da far comprendere alla maggior parte delle persone.
MSF per me è sempre stata l’organizzazione capace di essere presente in tutti i luoghi della sofferenza – continua Mara -. Noi siamo dove le persone hanno più bisogno. A Lesbo, durante un naufragio, eravamo in prima linea ancor prima che i richiedenti asilo arrivassero sulla terra ferma. Mi piace molto far parte di questa grande organizzazione che è una comunità con dei valori veri e indipendenti. Noi non rispondiamo a nessuno se non ai bisogni di chi è in difficoltà”.
Quando Mara è arrivata a Lesbo si è trovata davanti all’isola delle contraddizioni: da una parte c’erano i turisti e i ristoranti di lusso e dall’altra, ad appena un chilometro di distanza, c’era quell’enorme campo profughi dove stavano ammassati all’incirca diecimila persone.
“Noi lo chiamavamo “Moria 2.0” perché era lo stesso di quello andato a fuoco nel settembre del 2020 – ricorda Mara – e anzi, il nuovo è in una posizione ancora più pericolosa perché è sul livello del mare e d’inverno si allaga continuamente”.
Il campo all’interno è strutturato come una prigione. Si fa la fila per il cibo, per il bagno, per le visite mediche, per uscire, per il documento, e all’interno non si organizza nessun tipo di attività neanche per i bambini, che da anni non frequentano più neppure la scuola.
“Io ho visto tanta umanità e resilienza tra le persone che abitano in questo campo – spiega – e tutte però lamentano di non sentirsi più degli esseri umani. Sulle loro tende ci sono dei numeri ed è ciò che rimane di loro. Molti si sentono completamente privati della loro dignità perché già subiscono tanto nei loro paesi di origine, poi rischiano la vita nel tentativo di allontanarsi – alcuni di loro sono stati addirittura rapiti in Iran e in Iraq – e quando arrivano dopo un viaggio travagliato fatto anche di continui naufragi, con l’idea di riuscire ad avere finalmente la protezione internazionale da parte dell’Europa, si ritrovano prigionieri in un campo. Io li ho visti appena sbarcati e nonostante l’inferno che avevano vissuto, erano comunque pieni di entusiasmo e di speranza. Qualche mese dopo nel campo erano diventate persone vinte, disperate. “Io non sono un criminale, perché vengo trattato così?”, mi sono sentita chiedere tante volte. Una richiesta d’asilo a Lesbo è equiparabile a un processo con interrogatori interminabili che durano ore ed ore. Questa è la verità”.
Augusto Cezar Meneguim, responsabile medico di Medici senza frontiere a Lesbo, ha evidenziato come le politiche di contenimento mettano a rischio la salute delle persone, costringendole a vivere in una condizione paragonabile a una prigionia, con conseguenze devastanti e che il centro di Kara Tepe è simile a una prigione per le sue recinzioni e la presenza massiccia delle forze dell’ordine. D’inverno le persone sono esposte a venti gelidi e ad ogni tipo di condizione atmosferica perché sorge a ridosso del mare. I bagni chimici sono in cattive condizioni, mentre le poche docce disponibili non hanno nemmeno l’acqua calda. Le persone possono uscire dal campo per emergenze sanitarie o altri motivi medici, altrimenti hanno solo 3 ore a testa di libertà, due volte a settimana. Sono circa 2.200 i migranti e i rifugiati, di cui il 72 per cento di origine afgana e un terzo minori, che vivono sull’isola di Lesbo, in condizioni inadeguate e non dignitose, nel terrore continuo di essere rimandati indietro.
“Quel campo – aggiunge Mara – rappresenta il fallimento dell’Europa perché ha investito tantissimi soldi per realizzare nient’altro che una prigione”.
MSF a Lesbo ha due cliniche che per scelta ha voluto fuori dal campo e non è difficile intuirne le ragioni.
“Noi siamo contrari al campo – prosegue Mara – e poi abbiamo voluto realizzare dei luoghi esterni, una sorta di comfort zone, dove i profughi possano sentirsi liberi di fare delle sedute. La nostra clinica è l’unica a prendere in carico anche dei malati psichiatrici gravi che hanno persino tentato il suicidio. In molti vivono l’appuntamento con gli operatori di MSF come un momento liberatorio, lontani dalla prigione e dalle costrizioni”.
Nel campo operano i promotori della salute che collaborano attivamente con le organizzazioni che sono all’esterno. Sono loro a parlare con le comunità, ad ascoltare i loro bisogni e diventano gli occhi che possono vedere e registrare ciò che accade realmente.
“Lesbo per me è stata una sfida particolarmente impegnativa – continua Mara – perché non mi aspettavo di trovare una situazione del genere in Europa. Se vado in missione in Afganistan o in Siria, mi aspetto che ci sia la guerra e le bombe, mentre per me è stato scioccante vedere appena dietro casa mia, una realtà di questo tipo, e non è facile accettare che ora siamo noi a infliggere sofferenza a queste persone”.
Lo sottolinea spesso Mara: ciò che le ha fatto più male non sono state le storie dolorose dei suoi pazienti, ma non poter dire loro che ora finalmente erano salvi, che lei ed altri operatori si sarebbero presi cura di loro e delle loro famiglie oltre che tentare di rimuovere traumi e sanare ferite.
“In otto mesi ho visto tanti pazienti che si sono ammalati nel campo – spiega -. Una bambina afgana di 8 anni, appena arrivata, nonostante tutto quello che aveva già passato, stava bene, giocava, parlava, andava a scuola. Poi nel campo ha vissuto l’incendio e uno scontro tra polizia e manifestanti e da quel momento ha smesso di parlare, non reagisce a nessuno stimolo e non esprime più neanche i bisogni di base. Capisci che è difficile fare il mio lavoro se poi ti devo rimandare in quel campo? Io credo che stiamo soltanto aiutando le persone a sopravvivere piuttosto che curarle veramente”.
Mara racconta anche di un uomo afgano di 40 anni, con una disabilità grave sia fisica che mentale. La sua casa era stata attaccata dai talebani e i suoi genitori uccisi. Lui è riuscito a scappare con la moglie e i tre figli. Ma durante la fuga è stato vittima di un bombardamento e ha perso una gamba e un occhio. Nonostante tutto è riuscito a proseguire ma al confine con l’Iran sua moglie e i suoi tre figli sono stati uccisi. Solo e mutilato è riuscito comunque ad arrivare in Europa.
“Una storia terribile sua – conclude Mara – davanti alla quale ci siamo sentiti impotenti. Che quest’uomo su una sedia a rotelle sia ancora nel campo dove non c’è una strada asfaltata è inaccettabile. Ha sempre bisogno di assistenza ma non la riceve, c’è un vicino di tenda che lo aiuta a cucinare e un nostro assistente sociale che sta facendo di tutto per farlo uscire dal campo. La Grecia e l’Europa continuano ad infliggere sofferenza a una persona che ha già pagato tanto. Ogni volta che torno da una missione mi sento cambiata ma Lesbo, in particolare, mi ha procurato anche la difficoltà ad adattarmi al mondo normale, dove non esiste tutta la sofferenza con la quale mi sono dovuta confrontare ogni giorno. Questo dolore mi ha comunque arricchita perché ho visto anche tanta forza e resilienza. All’interno del campo non c’è una scuola e i rifugiati stessi, molti di loro sono laureati, hanno messo su delle piccole classi e hanno realizzato una scuola autogestita. Altri hanno dato vita a una piccola associazione che si occupa di pulire il campo. C’è molto dolore a Kara Tepe ma anche tanta umanità. Un giorno ho visto una messa in una tenda, pregavano tutti insieme, chiedevano aiuto al loro Dio. Ed è stata proprio la loro speranza ad aiutare me a sopportare tutto ciò che ho visto”.
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