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Vinicio Marchioni

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Si intitola “Tre notti” ed è l’esordio alla scrittura dell’attore Vinicio Marchioni ospite a Corigliano Rossano per la rassegna Autori d'(a)Mare


ATTORE, regista ed ora romanziere. Con Tre notti, Vinicio Marchioni, diventato famoso come Il Freddo della serie Romanzo Criminale e poi con tanto cinema fino al film di successo internazionale di Paola Cortellesi, segna il suo esordio nella letteratura. Uno racconto di formazione che ripercorre la vita di Andrea e della morte del padre nell’ambiente delle borgate romane di inizio anni ’90. Un libro che sorprende per intensità e spontaneità che si fondono in un grande galleria di personaggi che vanno avanti ed indietro nel tempo. Ne abbiamo parlato con l’autore Vinicio Marchioni prima della presentazione di “Tre notti”, questa sera (29 luglio 2024), a Corigliano-Rossano, nel Chiostro di San Bernardino, ore 21, per la rassegna Autori d’(a)Mare, nell’ambito del CoRo Summer Fest, organizzato dalla Mondadori Bookstore di Rossano.

Il libro si apre con una bella citazione di Pasolini. In Tre Notti non c’è solo la borgata e la Roma di inizio anni ’90 del protagonista Andrea, ma anche la sua voglia di ribellarsi che ha dentro e che non riesce a trovare sbocchi. Di chi sono figli i personaggi del tuo libro?

«Sono figli di quella Roma lì, di quell’Italia lì, nel senso che ho dato un nome di fantasia a quella borgata proprio perché volevo che fosse non riconducibile solo ad un uomo, ma che fosse un po’ il simbolo di tutta l’Italia, nel senso che quel bar dello sport lì, quei personaggi lì, secondo me sono la parte migliore dell’Italia. Sono dei personaggi che da una parte mostrano le loro fragilità, mostrano i propri figli. Continuano ad abbracciarsi, continuano a prendersi molta cura delle persone che hanno vicino, che fanno parte di quella microsocietà e secondo me fino al 1991 perlomeno l’Italia, credo che fosse tutta così, nel senso che in ogni bar dello sport c’era il picchiatello, c’era la prostituta, c’era l’omosessuale che non lo poteva dichiarare, c’era quello invece più effeminato, c’era la droga, chi se la faceva, chi la vendeva.
E erano tutti quanti appartenenti alla stessa microsocietà che li abbracciava e li proteggeva. Non escludendoli mai. Volevo mettere in scena quell’Italia lì, figlia delle periferie e delle borgate di Pasolini. Però quella citazione lì per me era è riferita soprattutto ai più giovani, soprattutto a chi quell’Italia lì non l’ha mai conosciuta. È riferita ai più giovani perché credo che sia nell’ordine delle cose che un adolescente abbia dei dubbi, sia arrabbiatissimo e voglia conquistarsi uno spazio nel mondo. Siccome l’adolescenza è uno dei protagonisti di questo romanzo ho utilizzato quella citazione da Pasolini soprattutto per questo motivo».

Leggendolo mi ha dato l’impressione di essere una sorta di crono-puzzle, un viaggio fra spazio e tempo in cui noi seguiamo Andrea che sta crescendo, con tutta la sua rabbia giovane, e non sa che adulto essere. Com’è stato dipingere tutti quei personaggi e tutti quei momenti storici?

«Ho cercato di lavorare prima di tutto su una struttura molto solida, nel senso della grande narrazione, sia cinematografica che letteraria, facendo in modo che il tempo fosse uno dei protagonisti occulti e ho cercato di giocare con questo tempo. E ho costruito tutto quanto perché volevo fare proprio un romanzo di formazione nell’accezione più classica e ho utilizzato tutti gli archetipi realistici della periferia, della borgata, di quel tipo di maschi di quegli anni lì. Ho cercato da una parte di svuotarli dall’interno, nel senso che questo è un romanzo maschile ma non maschilista.
E poi ho cercato di svuotare, appunto, anche tutti i cliché della periferia della borgata violenta, difficile, cercando invece di animarla di persone che amano, che sono in grado di prendersi cura dell’altro, che sono in grado di accompagnare. Poi per fare tutto questo ho usato anche gli archetipi della fiaba, nel senso che il personaggio di Nerone per me è una specie di Mangiafuoco, zio Mauro con Sorcapelata sono un Gatto e la Volpe ad esempio. Tutto perché la fine di questo viaggio, di questo eroe di 15 anni, fosse portato in una metaforica pancia della balena. Facendolo fondere in un luogo che è chiuso, misterioso e da dove ne uscirà 33 anni dopo, per essere come tutti gli altri».

Oltre alla galleria del bar di Memmo e allo Zio Mauro, il personaggio che ti investe leggendo il libro è senza dubbio Martina. Con Andrea divide rabbia, tenerezza e forse amore. Credi sia la parte femminile di Andrea o l’incontro di Andrea col femminile?

«Penso che sia l’incontro con il femminile in generale, perché comunque le due donne protagoniste di questo romanzo, Martina ed Angelina, sono due donne enormi, la metafora di tutte le donne, di quelle che veramente mandano avanti ancora il mondo. Per Andrea è sicuramente l’incontro con un femminile molto importante. È l’incontro anche con la sua parte femminile, credo che sia anche ambivalente la cosa, perché comunque Martina ha una parte maschile molto forte e Andrea ha evidentemente attraverso questa amicizia, quest’amore sviluppato una parte femminile, un ascolto femminile, una sensibilità, un certo istinto molto femminile».

C’è domanda importante nel libro che recita “Chi sei se tuo padre non ti vede?”. Che cosa vuol dire il padre per Andrea e che vuol dire essere padre ora per l’autore di Andrea?

«È una domanda gigantesca naturalmente. Io penso che oggi che ce lo dobbiamo domandare tutti quanti che cosa è un padre, non solo il padre biologico, ma tutto quello che la figura paterna rappresenta. Che cos’è l’autorità, che cos’è il potere, che cos’è tutto quello che la figura paterna, metaforicamente o psicologicamente o per archetipi. Io penso sia una domanda che ha attraversato tutta la scrittura, uno dei problemi più grandi, come dire di quest’ultimo periodo qui. Penso fino a tutti gli anni ‘90, i nostri padri non avevano tutto questo dialogo con noi. Venivano sostituiti da altri padri che erano i padri che incontravamo nella società: un’insegnante, uno degli allenatori di calcio, tantissimi padri. Oggi penso che la società non ne offra molti, che ne abbiamo soltanto uno e se non funziona bene non ne troveremo molti altri».

Oltre al padre Andrea ha una madre che si rivela lentamente ma costantemente per tutto il libro. Come è stato scriverla?

«È stato rendere omaggio a tutte le donne. Ho cercato di mettere dentro a questo personaggio di Angelina tutta la grande dignità, tutta la forza, tutto l’impegno che una donna mette anche uscendo da un fallimento di coppia per salvaguardare la figura paterna agli occhi dei figli, nonostante il tradimento, nonostante i problemi. Un padre dovrebbe esserci sempre. Credo di averla messa questa cosa.
Al di là poi dei problemi che, come dire, due coniugi possono avere tra di loro penso che la figura materna e la figura paterna debbano agli occhi dei figli essere sempre reciprocamente protetti e mantenuti, quindi ho cercato di costruire la figura di una donna, di una madre che ama ancora il proprio marito, nonostante tutte le cattiverie, come dire tutte le mancanze di quest’uomo. E ho cercato di costruire una donna autonoma, prima di tutto super indipendente, capace di dare grandi insegnamenti ai figli al di là delle mancanze dell’uomo».

Ho letto che tua madre è di Torre Melissa, come è il tuo rapporto con la Calabria?

«La Calabria si vede solo verso la fine del libro, in un ricordo d’infanzia di Andrea. Il mio rapporto con la Calabria è di grandissimo amore, perché i miei migliori amici li ho a Torre Melissa. Ho mantenuto la casa dei nonni. Ci vado appena posso, è la terra, come dire, dei miei riposi, la terra dove mi rifugio ed è la terra dove ritrovo anche le energie e dove rispolvero le mie radici più corpose».

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