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Il professor Giancarlo Costabile

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A CHI dà fastidio la Pedagogia dell’Antimafia? Lo abbiamo chiesto al professor Giancarlo Costabile, ricercatore e docente dell’Unical, dove insegna una materia che non si insegna in nessun’altra università italiana. Eppure deve difenderla coi denti dall’assalto dei “baroni”. Di come nasce questo insegnamento, del suo impegno, anche a proprie spese, degli ostacoli che incontra nel mondo accademico abbiamo parlato con il coordinatore di un innovativo laboratorio didattico che si colloca nel corso di laurea in Scienze dell’educazione. Un modo concreto di fare cultura antimafia, con aperture ai territori e missioni sul campo, tanto più che il concetto secondo cui le mafie vanno combattute anche sul piano culturale perché non si può soltanto delegare a forze dell’ordine e magistratura è ormai trito e ritrito nei convegni sulla legalità che proliferano a più non posso. Eppure anche ciò che sembra scontato non è mai così scontato.

Pedagogia dell’Antimafia, una disciplina unica in Italia, quella che si insegna all’Unical. Professor Costabile, come è nato questo percorso didattico, a chi si rivolge e come si è articolato nel corso degli anni?

«Il progetto di r-esistenza alle mafie nasce il 23 maggio 2011, nel giorno di Capaci, con un’iniziativa seminariale che ha visto come relatore don Pino Demasi, all’epoca referente regionale di Libera Calabria. L’idea che animava me e il prof. Michele Borrelli, che oggi purtroppo non c’è più, è la costruzione di una pedagogia della liberazione in grado di porsi quale strumento prassico di trasformazione sociale per il nostro territorio. Pensavamo nello specifico alla definizione di una struttura militante per il discorso educativo soprattutto per sottrarlo a ciò che era stato ridotto da certa università in quegli anni: una fabbrica della conservazione funzionale alla giustificazione dei peggiori vizi della Calabria. Pertanto abbiamo deciso di proporre analisi radicali e metodologie didattiche dirompenti. E in tal modo ci siamo aperti al territorio favorendo la partecipazione nei nostri corsi di biografie credibili impegnate davvero nel contrasto alla cultura mafiosa. Ma non ci siamo fermati alle aule dell’Università della Calabria. Il 30 novembre dello stesso anno abbiamo portato i ragazzi a maturare un’esperienza laboratoriale di cittadinanza democratica nella Piana di Gioia Tauro presso le cooperative fondate da don Pino Demasi. Successivamente il percorso seminariale diventa insegnamento-laboratorio di Pedagogia dell’Antimafia mantenendo questo schema didattico: in aula, una parola liberata dal potere attraverso le narrazioni dei testimoni attivi contro le mafie, e nei territori, l’analisi di concrete dinamiche sociali nella ri-territorializzazione di spazi e luoghi. Pedagogia dell’Antimafia è l’unica esperienza didattica così concepita all’interno della Pedagogia accademica italiana».

La sua attività si svolge in gran parte sul campo, con trasferte a Scampia, a Palermo, nella Locride, nei territori più difficili, in cui le mafie hanno lasciato segni devastanti ma in cui si trovano anche esempi emblematici di riscatto. È vero che le missioni si svolgono senza impiego di denaro pubblico?

«La parola che libera non può essere quella pagata dal sistema almeno quando si decide di fare antimafia militante. Lo dobbiamo a Falcone e Borsellino, e a tutte le vittime del potere mafioso. Loro non hanno più vita e i familiari sono costretti a convivere con l’ergastolo dei sentimenti fino alla fine dei loro giorni. Prendere denaro pubblico nella lotta alle mafie significa uccidere ripetutamente queste persone, prendendo in giro i loro familiari. Ho scelto questo radicale metodo di lavoro (autofinanziamento con economie dello stipendio personale) per rendere esplicito l’attacco al cuore del sistema di potere masso-mafioso che attanaglia il nostro Paese in ogni sua articolazione vitale. In 11 anni, abbiamo attraversato diversi territori del nostro Mezzogiorno: dalla Piana di Gioia Tauro a San Luca, da Palermo a Scampia, incontrando storie straordinarie di resistenza alle mafie e al malaffare».

Si parla tanto della necessità di contrastare le mafie sul piano culturale e lei insegna appunto ai suoi studenti come combatterle con esempi concreti. Eppure ha incontrato difficoltà nel mondo accademico per riuscire ad affermare la necessità di un percorso formativo di questo tipo in una terra come la Calabria, casa madre della più potente tra le organizzazioni criminali…

«Le università sono luoghi di potere. La mia proposta didattica è stata da subito contrastata, prima in modo strisciante con minacce e ricatti sulla carriera (che ho rispedito al mittente), e poi in modo pubblico con la delegittimazione istituzionale. Nel febbraio 2019, la commissione del corso di laurea in Scienze dell’Educazione approva una proposta di modifica del manifesto degli studi nella quale, senza alcuna consultazione con l’interessato, si cambia il nome della disciplina, da Pedagogia dell’Antimafia a Storia dell’educazione sociale dell’antimafia, e vengono tagliati i crediti dell’insegnamento (che passano da 9 a 6, eliminando sostanzialmente tutto il percorso laboratoriale). La proposta della commissione viene bocciata in dipartimento dalla maggioranza dei docenti e dal direttore. Ma gli attacchi istituzionali non cessano: nei giorni successivi alla votazione del dipartimento, viene addirittura convocato un altro consiglio di corso di laurea per il 5 marzo 2019 che avrebbe dovuto prospettare un nuovo progetto di modifica degli insegnamenti. La seduta assembleare però non si svolge per mancato raggiungimento del numero legale. Anche nel 2020 e nel 2021, l’insegnamento di Pedagogia dell’Antimafia è oggetto di continue rimostranze da parte di un gruppo di docenti (in minoranza nel dipartimento)».

Come giudica la mancata nomina di Gratteri a procuratore nazionale antimafia, anche alla luce dei recenti progetti di attentato? E come legge la mobilitazione a suo sostegno che sfocerà in una manifestazione a Milano denominata non a caso “Mai più stragi”?

«Nicola Gratteri è un patrimonio dell’antimafia italiana, tra i maggiori conoscitori delle dinamiche politiche ed economiche del narcotraffico di cui è stato e resta uno degli avversari più temibili. Gratteri è un “non allineato’ e in questo Paese biografie del genere faticano ad avere riconoscimenti istituzionali. Credo però che nella corsa a Procuratore nazionale antimafia non abbia giovato al magistrato reggino l’estrema fragilità dell’antimafia calabrese, colpita negli anni da scandali, caratterizzata da personalismi, litigiosa e incapace di costruire una rete credibile di contrasto alla cultura criminale. Ha perso la Calabria in questa vicenda e Gratteri paga ingiustamente il prezzo più alto. Adesso dobbiamo stargli vicino e sostenerlo come non mai, nelle piazze e nelle istituzioni. Gratteri rischia seriamente la vita».

“Certe morti non ci hanno insegnato nulla”, ha detto il magistrato Alfredo Morvillo alla vigilia del trentennale delle stragi. Cosa c’è, secondo lei, dietro questa affermazione?

«La piena consapevolezza della natura politica del fenomeno mafioso. Capaci e via d’Amelio sono stragi di Stato anche se materialmente realizzate dai Corleonesi. Le mafie hanno sempre operato e continuano a farlo attraverso un potere di delega nei territori, non dichiarato in modo ufficiale ma sostanzialmente legittimato dai palazzi del potere romano. Lo scrivono bene Danilo Dolci e Pippo Fava già negli anni Sessanta e Settanta del ‘900, lo riprende scientificamente Pino Arlacchi negli anni Ottanta così come Falcone e Borsellino nei loro scritti poco prima di morire. Isaia Sales nel 2015 parla poi, apertamente, del sistema mafioso come una modalità permanente e strutturale del potere in Italia. Le mafie sono, in poche battute, una parte fondamentale dell’autobiografia della nazione».

Oggi le mafie, e la ‘ndrangheta in particolare, sono sempre più delocalizzate, silenti e camaleontiche. Anche delle evoluzioni delle dinamiche criminali si parla nei suoi corsi, come rispondono i suoi studenti?

«Le mafie italiane sono diventate uno dei volti principali della globalizzazione capitalistica e dell’ideologia del profitto. I giovani si rendono conto della complessità del fenomeno e della sua pervasività nel tessuto economico-sociale del Paese (e non solo). La loro risposta argomentativa è positiva e la partecipazione alle iniziative è significativa. Il problema purtroppo è rappresentato dall’emigrazione. Per aver riconosciuto un salario dignitoso, i nostri ragazzi (parlo degli educatori professionali) sono costretti in gran numero ad andare via. E questa è la sconfitta più dolorosa per il nostro progetto. Costruiamo una parola ribelle che si fa pienamente democrazia partecipativa altrove. Nonostante gli sforzi e le rinunce (a partire dalla forte compromissione della carriera personale) non sono riuscito a costruire una rivoluzione in grado di spezzare le catene del potere masso-mafioso calabrese, anche se non intendo affatto arrendermi».

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