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JUGALE, il carme cosentino, anzi calabrese per eccellenza. Jugale, ovvero una delle opere dialettali più celebrate di sempre, tanto da entrare a far parte del gergo comune. «Si nu Jugale»: alzi la mano chi non l’ha mai detto o non se l’è sentito rivolgere a mo’ di sfottò. Utilizzato – non sempre a proposito – quale sinonimo di tonto, pazzerello, o di maschera in stile Pulcinella, rappresenta invece nella versione letteraria che vi proponiamo, un inno all’ingenuità dei puri, alla semplicità dei giusti.
Antonio Chiappetta, poeta, letterato e giornalista, lo scrisse ancora adolescente sul finire dell’800 come mero esercizio letterario. E tale avrebbe dovuto rimanere per volontà dello stesso autore. Purtroppo per lui – e per fortuna nostra – l’ostinazione dei suoi familiari ha consegnato alla storia questo poemetto in sestine che il Quotidiano del Sud ripropone ora a puntate, certo di regalare ai suoi lettori la chiave per comprendere i segreti più intimi del nostro vernacolo e, più in generale, di quel sentire comune maturato tra cortili, piazze e vinelle e giunto a noi sotto il nome di tradizione. Imparate a ridere, allora, seguendo le peripezie di Jugale, il nostro Bertoldo, innocuo combinaguai che nasce e cresce nella Cosenza di Chiappetta, città attraversata da fermenti politici e letterari che caratterizzeranno, anche in modo tragico, il secolo successivo. Ci sono le vizoche in chiesa e le stroscie dai balconi; i bambini portano il cappello, ma solo per giocare a cuoppulune e, intanto, vanno in giro con giacche di criscimugnu, più larghe in previsione dell’imminente sviluppo. Dal vicino Savuto, i briganti compiono le loro incursioni a ogni funerale d’ebreo, convinti di trovare tesori nelle casse da morto.
Di questo e altro il giovane Jugale è spettatore attivo, testimone di un’epoca come il giovane Chiappetta che, diventato adulto, dirigerà uno dei giornali più combattivi di quel periodo: “Il Giornale di Calabria”. Jugale, invece, adulto non lo diventerà mai del tutto, descritto dal poeta mentre va in cerca di legna da ardere e tenta di segare il ramo di un albero – «lo schantune» – restando però seduto su di esso. «Ohi ciotagliune» lo avverte, dal basso, la buona coscienza, ma invano. Del resto, si era presentato al lettore già dalla culla, impegnato a far indigestione di fichi secchi, per essere salvato poi da un medico che, con tanto amore, lo sottoporrà a tre lassativi, preparati apposta per lui con sapienza galenica. Un semplicione, ma che non perderà la propria innocenza a differenza del mondo di allora, e delle due guerre che, presto, ne avrebbero cambiato per sempre il volto. Dalle purghe di fantasia a quelle vere, il salto sarà breve anche per l’irriverente Totonno, che vivrà male, malissimo, il successivo Ventennio fascista. «Chiuso in un rancoroso silenzio», lo immortala così Pasquino Crupi nella sua “Storia tascabile della letteratura calabrese”: ostile alla dittatura, al punto da annullarsi completamente in segno di protesta. Altri tempi, rispetto a quelli del “Giornale”, quando la sua redazione metteva insieme Michele De Marco, poi passato alla storia come l’immortale poeta “Ciardullo” e Michelino Bianchi da Belmonte Calabro, futura eminenza grigia di quel Fascismo tanto inviso a Totonno.
Ma quegli anni lì, i primi del XX secolo, erano ancora anni di neonato socialismo conditi dai primi grandi scandali legati alla sanità, alla politica o alle opere pubbliche: come quello per la costruzione della prima linea ferroviaria a Cosenza; un giro di appalti e mazzette che Chiappetta denuncerà con la sua penna, provocando addirittura le dimissioni dell’allora consiglio provinciale coinvolto direttamente nella vicenda. Un risultato che il giornalista pagherà a caro prezzo, con un’intimidazione a colpi di rivoltella subita nel portone di casa mentre i politici da lui messi alla berlina verranno in seguito rieletti. Era il 1902, ma a ben vedere sembra ieri. Tre anni più tardi, esce la prima edizione nota di “Jugale”, ma in realtà si tratta della seconda stampa. Della prima non si hanno notizie certe ed è solo uno dei misteri che fanno da anticamera alla leggenda. Si racconta, infatti, che all’acme del volontario isolamento, lo stesso Chiappetta abbia gettato nel caminetto il manoscritto originale, poi raccolto da suo figlio Gigino prima che le fiamme lo divorassero. Totonno, Gigino, Totonno, Gigino: negli anni a venire, come un pendolo, l’albo di famiglia riprodurrà sempre lo stesso movimento swing. Fu proprio Gigino, dunque, alla morte del capostipite, avvenuta nel 1942, a riportare in vita Jugale violando le disposizioni dell’autore che, prima di spegnersi, si era raccomandato di consegnare per sempre all’oblio il suo componimento di gioventù. E invece – si era già negli anni 50 – il mito torna a rivivere nella nuova edizione, curata proprio dal Giornale di Calabria. Cosenza, in quel periodo, comincia a essere la città che somiglia tanto a quella odierna. Il suo cambiamento è scandito dall’espansione edilizia, con il cemento che dilaga verso Nord, sulla rotta socialista di altri comuni rossi come Rende e Montalto. Inizia allora la marginalizzazione del suo centro storico e di quei luoghi, tra lo Spirito Santo, la Garruba e il West, dove il giovane Jugale mosse i suoi primi passi. Non c’è più il Fascismo ormai a determinare le regole, ma c’è la Chiesa che – qui più che altrove – determina tutto ciò che va determinato. Jugalicchio, però, resiste ai mutamenti repentini imposti dal secolo breve, agli scossoni del ’68, ai cieli di piombo del decennio successivo. Nel 1976, viene ripubblicato in formato fedele all’originale, sempre con il distico beffardo e tanto caro all’autore impresso in copertina: «Dedico questo poemetto eroicomico ai lettori che lo compreranno». Il personaggio diventa così popolare da approdare anche in teatro. L’opera si chiama “Pulcinella e Jugale” e, tra gli attori protagonisti c’è Totonno Chiappetta, figlio di Gigi e nipote dell’autore («Totonno, Gigino, Totonno…»). Sarà lui a raccogliere e ampliare l’eredità di famiglia, portando la propria arte in giro per il mondo: nei cinema, in tv, sui palcoscenici e nelle piazze. A Francesco De Gregori, suo amico di gioventù, suggerì un versetto per la sua “Signora Aquilone”, ma non si esclude che tra una chiacchiera e l’altra, gli abbia parlato anche di Jugale che, al cantautore, potrebbe benissimo aver ispirato la figura del “Giovane esploratore Tobia”. Potrebbe, non si sa mai. Un’artista poliedrico Totonno junior, alfiere di una cosentinità contaminata da suggestioni metropolitane importate da Roma e New York, tra anarchia e risate, poesia e invettiva. E tanta nostalgia. Un comico da primo “Bagaglino”, però de sinistra; che prima di morire – troppo presto, a soli 60 anni – renderà omaggio all’antenato omonimo dando una voce al suo antieroe, lo Jugale che diventerà un audiolibro edito da Pellegrini.
Muore povero Totonno, così come povero era vissuto, celebrato con tutti gli onori quando ormai però non poteva più trarne giovamento, non su questa terra almeno. Cede il testimone a suo figlio Gigino, anch’egli giornalista, custode vivente di una memoria difficile da cancellare perché gravida di troppi sogni: «Totonno, Gigino, Totonno, Gigino», ripeteva come un mantra suo padre, consapevole che quella formula magica gli avrebbe schiuso le porte dell’immortalità. «Dicia a verità, Luna lucente. Ma tu t’ammucci, e un rispunni nente», avrebbe detto Jugale con la stessa enfasi. Più che un tonto, ormai, sembra proprio uno di quei furmicuni, circondato dalla sua Luvisella e dalle Teresine tutt’intorno. Curtu di pensiero sì, ma con la saggezza di chi ha superato i cent’anni d’età e dalla vita ha imparato che per ridere e sognare, basta conservare un cuore sempre bambino. Buon divertimento.
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