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DAL mare di Vigata alle montagne di San Fili, dal commissario Montalbano a Giuseppe Zangara. L’estate di Peppino Mazzotta ha avuto una “coda” dall’intenso sapore calabrese. Poche vacanze, tanto lavoro e molte cose che bollono in pentola. In questi giorni l’attore cosentino, noto al grande pubblico per l’interpretazione dell’ispettore Fazio nella serie del commissario Montalbano, è a San Fili, al teatro Gambaro, dove sta conducendo un laboratorio per attori su un testo scritto dai lui stesso nell’ambito della residenza teatrale “Teatri meridiani”. Si parla di Giuseppe Zangara, il calabrese che sparò al presidente degli Stati Uniti Roosevelt nel 1933. Un attentato che fallì e che chissà, forse, avrebbe cambiato il corso della storia.
Cosa la affascina di questo personaggio?
«Una serie di cose. Intanto l’originalità dell’individuo, unico. E poi il fatto non secondario che sia un calabrese e che stranamente per certi aspetti la prima parte della sua vita somiglia alla mia. Anche io come lui sono cresciuto in campagna e poi sono andato via di casa. Un contesto che mi dà in qualche modo l’illusione di capirlo a volte».
Un calabrese sconosciuto a molti. Perché raccontare la sua storia?
«Perchè rientra in un percorso cominciato prima con “Radio Argo” e poi con “Le anime morte” di Gogol, i miei precedenti lavori, tutti testi in cui viene affrontato il tema del potere e come con esso ci si relaziona. Un rapporto che non è mai sereno, che ci causa quella sofferenza che ci ha allontanato dai valori primari. “Radio Argo” lo racconta in maniera epica, “Le anime morte” invece lo fa dall’interno. Zangara invece è una via di mezzo, uno che non sta nè fuori nè dentro al sistema e questo innesca un meccanismo in cui lui giudica il rapporto col potere dall’esterno e dall’esterno può metterlo a nudo».
Quella di Zangara è una storia ambientata in America nel pieno della crisi del ‘29. Possono esserci dei richiami alla realtà di oggi?
«Secondo me sì. Quella crisi è identica a questa. La cronaca di quegli anni è uguale alla nostra, gente che si toglieva la vita, gente che faceva la fila per strada per il pranzo, fabbriche che chiudevano, una reazione a catena che ha coinvolto tutto il resto del mondo. Senza dimenticare la politica che diceva che bisognava tirare i remi in barca e optare per una politica di rigore. Roosevelt invece era per una politica di investimenti, che aiutò l’America a superare quel brutto momento».
Come ha conosciuto Zangara e la sua storia?
«Me lo ha fatto scoprire Giovanni Sole (docente dell’Unical, ndc). Mi ha mandato un testo in cui erano riportare testimonianze dell’attentato. Zangara voleva sparare a Roosevelt nella folla ma sbagliò e ferì cinque persone tra cui il sindaco di Chicago che poi morì e Zangara fu condannato alla sedia elettrica. Questo personaggio mi ha colpito subito per la sua natura, per come egli stesso si rapporta con quello che ha fatto e con la legge del tempo. Ho cercato altre fonti e ho scoperto che esiste un solo libro sulla vicenda che si chiama “Le cinque settimane di Giuseppe Zangara”. Poi ho iniziato a scrivere una sceneggiatura che è ancora in via di completamento e sulla quale stiamo lavorando a San Fili».
Quando pensa che questo testo andrà in scena?
«Entro il 2013. Spero che possa debuttare in un festival estivo o autunnale, è da decidere».
Sugli allievi del laboratorio che effetto ha fatto questa storia?
«Mi pare di poter dire che sono personaggi che suscitano una certa curiosità. Certi sentimenti».
Chi sono gli allievi del suo laboratorio?
«Alcuni sono attori giovani, anche di talento. Il talento c’è, parlo in generale dei giovani. Il problema è che il talento per maturare ha bisogno di opportunità e forse qui non ce ne sono tantissime. Non mi riferisco solo alla possibilità di lavorare ma anche di fare degli incontri. Purtroppo non c’è una grande apertura verso l’esterno, questa è una cosa che deve essere superata».
Lei è alla prima esperienza drammaturgica. Com’è stato passare dal palcoscenico alla scrivania?
«Non avevo mai fatto una cosa del genere. Finora avevo scritto solo degli adattamenti. Questa è una cosa diversa. C’è un lavoro preparatorio e di ricerca, all’inizio, poi però bisogna mettersi davanti al foglio bianco e prendere decisioni».
Tornando a Radio Argo, qualche settimana fa ha ricevuto il premio Annibale Ruccello. Quanto è stato importante?
«Mi ha fatto molto piacere. Adoro Ruccello, medito da molto tempo di fare un documentario su di lui. E’ stato l’ultimo drammaturgo in linea diretta con Scapetta e De Filippo. In occasione del premio ho conosciuto sua madre, mi ha invitato a casa sua. E’ stato emozionante vedere la sua stanza, le sue cose, la sua Olivetti. Alla signora ho fatto una videointervista che quando deciderò di fa questo documentario sarà sicuramente molto utile».
Lei vive a Napoli. Come mai?
«Per una scelta lavorativa. Quando vivevo a Roma capitava spesso che mi chiavano a Napoli a lavorare e ad un certo punto mi ci sono spostato definitivamente. Devo molto a Napoli. Spesso vengo pure considerato un attore napoletano».
E la cosa le secca?
«Quando ne ho l’opportunità, spiego che invece sono calabrese».
Le secca invece sentirsi dire Peppino Mazzotta virgola l’ispettore Fazio della serie tv Montalbano? E’ un’etichetta che pesa, dopo un po’?
«Non c’è possibilità di invertire questa tendenza, è una cosa contro la quale è meglio non avviare nessuna guerra. La cosa importante è non lasciare che questa cosa ingabbi te altrimenti non fai più nulla. Meglio accettarlo e stare positivo rispetto a questo. Mi dà fastidio invece esser considerato solo per quello».
Anche perché a guardare i personaggi che lei interpreta a teatro è Fazio ad essere l’eccezione rispetto al contesto.
«Perché quella è la mia storia di teatrante, fatta di testi sempre impegnanti e con personaggi sempre molto complicati. E’ una cosa che faccio da sempre».
Cos’è che dovrebbe auto imporsi di fare, il teatro?
«Io amo la drammaturgia contemporanea. Il sistema teatrale dovrebbe dare spazio ai drammaturghi viventi. Se una comunità non dà ascolto alla voce dei suoi scrittori è una comunità morta. Al massimo provinciale. Perché gli autori viventi inglesi o spagnoli li facciamo e i nostri no? E non è giusto che Letizia Russo sia andata in Inghilterra. E ce ne sono di bravissimi che fanno molta fatica, come Francesco Suriano, Igor Esposito o Michele Santeramo».
Non è invece che è il pubblico a pretendere di vedere sempre e solo i classici?
«Il pubblico si forma. Non è quello il problema. E’ piuttosto una questione di scelte che il sistema teatrale non vuole fare. E’ più semplice produrre qualcosa che è già sulla carta ed è già collaudata. Con i nuovi autori si rischia e rischi, oggi, non ne vuole prendere nessuno». Lei avrebbe un’idea, un suggerimento? «Proviamo a fare una legge che dica che il 35 per centro dei cartelloni deve essere italiano, di autori contemporanei. Questo risolverebbe moltissimo la crisi, anche nel teatro. Il direttore artistico oggi invece ha il problema principale di chiudere il bilancio. Un’altra cosa: perché in Italia non esiste un centro di drammaturgia contemporanea?».
Lei ha invece un’idea del momento che attraversa il teatro calabrese?
«No. Però ricordo benissimo quello che era il teatro a Cosenza vent’anni fa, quando sono andato via io. Non c’era niente. Al massimo si poteva andare all’Acquario dove ho visto la maggior parte delle cose che mi hanno formato. All’epoca non c’erano compagnie, non c’erano attori, non c’era niente. Oggi non è così, per fortuna. Credo che a Cosenza abbia giovato molto la scuola di Palmi, dalla quale sono usciti i calabresi che poi hanno scelto di continuare a lavorare qui».
Com’è stato lavorare con Checco Zalone in Cado dalle nubi?
«Divertente. La mia era una parte piccola, solo cinque giorni di riprese. Feci il provino per la parte del gay, io e Checco ci siamo fatti un sacco di risate. Quando mi chiamarono pensavo che era fatta, invece mi avevano scelto per fare il prete. Ho comunque un ricordo positivo sia di Checco che di Nunziante».
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