Giacomo Mancini con sua moglie Vittoria Vocaturo
4 minuti per la letturaDalla pagina LETTERE E INTERVENTI del Quotidiano del Sud (opinioni.calabria@quotidianodelsud.it)
Illustrissima dottoressa Macrì, nella sua rubrica del 13 giugno, lei ha ben analizzato il famoso calabrese Giacomo Mancini, definendolo “autorevole, malinconico, timido”. Il giorno delle sue esequie si mobilitarono molte migliaia di persone. Sullo stesso prediletto Quotidiano del Sud si volle ignorare che in cima al corteo c’era pure la seconda moglie di Mancini, Vittoria Vocaturo.
Vorrei aggiungere qualche ricordo personale. Donna Vittoria aveva sposato Giuseppe Carci, dirigente della Trezza in tutta la provincia di Cosenza. Pure gli antenati dei Carci provenivano dalla grande Albania del XV secolo e si stabilirono nel mio borgo natio, San Martino di Finita, in provincia di Cosenza. Figlia di un docente socialista, la madre di Giuseppe, Ermanna, fu la prima ragazza a frequentare il Liceo Telesio. Poi fu sposa dell’avvocato Luigi Carci. Quando Giacomo Mancini divenne il personaggio politico tra i più autorevoli d’Italia, donna Vittoria organizzò l’annullamento del matrimonio con Giuseppe Carci. Poi il matrimonio religioso ebbe bisogno della testimonianza della ex suocera, la socialista Ermanna, vedova dell’avvocato Luigi Carci, conditio sine qua non per il Diritto Canonico.
Al Ministero dei Lavori Pubblici, donna Vittoria fu l’eccellente consigliera di Mancini. A suo tempo, per l’attuale Riviera dei Cedri, la strada provinciale era l’unico collegamento con gli uffici, e altro, di Cosenza. La Superstrada tirrenica, nuova e ben costruita, raggiunse l’Autostrada del Sole. In tempi brevi, sulla Riviera dei Cedri arrivarono le moltitudini dei bagnanti napoletani, creando occupazione e ricchezza. La Superstrada nuova di zecca collegò Guardia Piemontese con il Vallo del Crati grazie allo svincolo di San Marco Argentano. Uno dei capolavori manciniani fu ed è il Lungomare di Diamante. Ab inizio, fu interamente dedicato a Giacomo Mancini, poi ne restò solo un pezzo. Dove c’erano fienili e stalle, i Napoletani ne trassero graziosi alloggi. Grazie a qualche soggiorno all’Hotel San Michele di Cetraro, la coppia Mancini ne pubblicizzò bellezze naturali e confort, tanto da divenire famoso tra i VIP d’Italia.
Deferenti ossequi
Vittorio Tocci – Cetraro (Cosenza)
Solo qualche chiosa al suo bel racconto. Intanto, è un mio pallino, la conferma che questa non è la regione dei latifondisti e dei nobili, da una parte, e dei pezzenti e dei briganti dall’altra. C’era una borghesia colta e aperta, che permetteva alle donne di affermarsi, che viaggiava e che studiava, e che, a furia di strappi, anche faticosi, contribuiva fortemente al benessere e alla emancipazione della Calabria. Ad essa appartenevano, per dire i Mancini, e, lei ci racconta, i Carci.
La signora Vittoria Mancini (“donna Vittoria”, per il mio vocabolario egualitario è epiteto impronunciabile) era una donna rara. E non mi riferisco al ruolo in qualche modo “pubblico” che ebbe come compagna del deputato, del ministro, del sindaco Mancini: non credo affatto che fu una santa – chi lo è? – né un’eroina, figuriamoci… Mi riferisco alla sua naturale femminilità, al suo istintivo “stare accanto” al suo uomo, al suo essergli indispensabile rivestendo il ruolo di gregaria. Li conobbi, e li sfiorai, insieme, che erano già vecchi, pieni di rughe, malcerti nell’incedere. E, lei, bellissima. Mi dimenticavo la loro storia, i loro successi, i loro inciampi e le loro avventure e mi incantavo a cogliere il gioco dei loro sguardi, l’apparentemente timido chiedere spiegazioni di lei a lui, il senso di protezione di lui verso di lei quando le spiegava. Il loro lessico famigliare, capace di fare slalom tra fatti privati e considerazioni alte, tra ironia e seriosità. La tenerezza reciproca, le fuggenti carezze. I pizzini d’amore, che, mi dicono, si scambiarono fino all’ultimo. Era talmente “insieme” a Giacomo Mancini, la signora Vittoria, che mi pare strano che il nostro “prediletto Quotidiano”, come lei dice, non l’abbia citata, nelle cronache delle esequie di lui…
Lei traduce la grandezza del ministro Mancini nell’aver saputo ridisegnare le strade del Tirreno cosentino, indicando agli abitanti la direzione da prendere. E’ la stessa sensazione che vivo io da cosentina non di nascita, è vero, ma da Cosenza sono stata adottata e l’ho adottata come uno dei luoghi fermi della mia inquieta vita. Mi ritrovo a “pensare a Mancini” tutte le volte, spessissimo!, che, con grande gusto, percorro a piedi la città. Per le sue belle strade che l’hanno emancipata dall’asfittico spazio paesano, per le sue periferie diventate centro, per il suo centro diventato più arioso e più vivibile… forse, se avesse vissuto qualche anno in più, il sindaco Mancini sarebbe riuscito anche a “liberare” Cosenza vecchia: aveva cominciato nell’impresa, ma, quando lui è morto, i Cosentini l’hanno uccisa una seconda volta…
Altri sindaci, Cosenza, l’hanno colorata, decorata, illuminata: Giacomo Mancini le ha dato vita, nel senso che ne ha fatto location più aperta e più bella per le vite dei Cosentini, che lui, dal più umile al più VIP, come lei direbbe, amava tanto.
Annarosa Macrì
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