Il volto di Emanuele dopo l'aggressione
5 minuti per la letturaEmanuele ha 14 anni e al contrario di tanti (nessuno insorga, please, ho scritto tanti, non tutti) della Generazione Zeta-Instagram-influecers dipendenti, ama i libri, la politica, l’impegno sociale. Non ha nemmeno un profilo social. Un alieno.
Lunedì scorso è in classe, al liceo Scientifico “Valentini-Majorana” di Castrolibero, piccolo centro adagiato su una bella collina alle porte di Cosenza. Emanuele viene insultato ripetutamente, oltraggiato.
La sua riconosciuta, stoica pazienza crolla quando a un certo punto il tormentatore offende con ciarle non più sopportabili la fidanzatina di Emanuele, che reagisce, manda a quel paese chi lo sta vessando, forse quasi meravigliandosi per aver trovato la forza di replicare.
Sembra finita lì, ma non lo è affatto, perché lo sgarro deve essere vendicato a ogni costo. Il tempo dello scambio di qualche messaggio su Whatsapp (lunedì mattina il blackout del gruppo di Zukenberg è già un brutto ricordo; o bello, a seconda delle osservazioni in merito), e il tempo di varcare l’uscita al suono della campanella: contro il ragazzino arriva un pugno, fulmineo, pare una bomba, un missile.
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Emanuele cade a terra, finisce su un muretto dove grazie al cielo è seduto uno studente, circostanza che eviterà alla testa della vittima di spaccarsi in due; il naso è rotto però, l’interno della bocca devastato (si è fatto due giorni di ospedale, punti, suture, tac, in mezzo a dolori terribili, e forse perderà tutti i denti), è pieno di sangue, ovunque, ma si rialza, fa due passi, cade nuovamente.
È a terra Emanuele, quasi incosciente, sembra la scena di una tortura fresca, è annientato nel fisico e nell’anima. Il ring è quella zona che dovrebbe essere franca che è lo spazio all’uscita da una scuola. Ed è un fatto inaudito, certo, seppure non proprio inedito.
Siamo “abituati” ai pestaggi, alle morti causate dai pugni, dai calci in testa ripetuti, come quella di Willy Monteiro Duarte poco più di un anno fa a Colleferro, alle porte di Roma.
Ciò che fa accapponare la pelle è la scena attorno al “delitto”: studenti, professori, genitori, possibile che nessuno abbia visto nulla, che l’aggressore abbia potuto agire e in un lampo correre via e ancora, peggio, che nessuno si sia preso la briga di dire “A”, né di correre a denunciare l’accaduto? Possibile, sì.
Il maresciallo Vincenzo Cozzarelli, salernitano al comando della stazione dei Carabinieri di Castrolibero da 26 anni, “guardia” d’altri tempi, uno tosto, tostissimo, ne ha viste di tutti i colori, ma è addolorato: “Sa a quest’ora qui davanti alla caserma che cosa avrebbe dovuto esserci? La fila. Non è venuto nessuno, e scommetto quello che vuole che mai nessuno verrà. Questa è la situazione, questa è la Calabria, questo è l’andazzo generale certo anche altrove, ma in questa regione specialmente”.
Deserto, il deserto. Il deserto numero uno: l’Omertà. Ed essere omertosi è essere complici di un delitto, inutile che ci giriamo tanto attorno. Chi sa, e sanno tutti, deve andare a denunciare. Non se ne esce altrimenti.
“Lunedì era il giorno di san Francesco, è stato lui a salvare la vita di mio figlio”, mi dice in proposito, con un filino di voce, ma coraggiosa, pronta a combattere, Adele Sammarro, la madre di Emanuele. Insegna Lettere nello stesso istituto che frequenta il figlio. Ha pubblicato sul suo profilo Facebook le foto, e queste sono agghiaccianti. Un sacco di solidarietà pubblica, ma anche tanto deserto privato.
Adele riceve inviti a rimuovere il post, per il bene della scuola, per il buon nome dell’istituto. C’è addirittura chi afferma l’inaudito, la fantascienza: “Forse suo figlio era un po’ nervoso”.
Si tratta del deserto numero due: la Vergogna. In questa landa attecchisce un fiore che ha l’aspetto della faccia di bronzo di quella parte di umanità perduta per sempre, quella che odia, che respinge, che non sa nulla, che vegeta, comandata da quei pochi nel mondo (e la Calabria non è che sia una regione nello spazio celeste, anzi) che decidono il destino di tutti. La stessa che ha permesso all’aggressore, un ragazzino anche lui, di agire, che gli ha insegnato, forse con l’esempio, chissà, che questo si deve fare, che questa è la via giusta da seguire, che nella giungla vince chi è più forte. Sorvolando su un fatto fondamentale, ovvero che è l’esatto contrario.
Emanuele è la vittima certo, e appare più debole, al punto che viene schernito e addirittura se si ribella (ed è stata una ribellione garbata anche quella) viene preso a pugni che gli spaccano il viso. Tuttavia, può darsi che sarà difficile da comprendere, è lui il più forte.
Perché Adele mi racconta di un figlio appassionato per esempio di Storia, aggiornato sui fatti della politica, documentato, che ha sviluppato un senso critico sorprendente se cucito addosso a un ragazzo di appena quattordici anni che vive in una terra come questa.
Sa, Emanuele, che senza quei libri che ha sul comodino non potrà difendersi, non potrà capire, non potrà far capire quindi agli altri come stanno le cose e dire perciò adesso basta. Come non potrà sapere e fare, mai, il suo aguzzino. A Emanuele ha spaccato la faccia, è vero, ma i pugni alla fine li prenderà costui. Alla lunga, ma sarà così.
La narrazione di Adele in questo senso lascia senza fiato, perché arriva all’indomani dello sconforto che ci prende osservando quel grande, grandissimo partito dell’astensione e mentre ci si interroga sul futuro di questa regione e non soltanto.
Dà speranza, oggi, sapere che c’è da qualche parte un quattordicenne come Emanuele, che ve ne siano molti altri come lui che sanno perfettamente quanto sarebbe pericoloso e definitivo alzare la bandiera bianca. E che la tentazione di mollare è, sì, forte, ma occorre combattere se vogliamo debellare quell’Andazzo, maiuscolo anche questo, di cui parla il maresciallo.
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