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Cemento ovunque, territori artificializzati, una città senz’aria e anche senz’anima: la speculazione edilizia che ha cambiato il volto di Cosenza e dei cosentini


Sulla Via degli Stadi e sulle allora colorate palazzine popolari che in direzione ovest ne accompagnavano il percorso fino quasi all’incrocio con il torrente Campagnano, spirava una bella brezza proveniente da Monte Cocuzzo. Intensa e a volte cocciuta si infilava con prepotenza lungo il canalone che correva giù da Cerisano, sfiorava i Fontanesi e, laterale al torrente, scompigliava la fitta vegetazione sgrullando ulivi, acacie, pioppi e finanche le vecchie querce che numerose accompagnavano il declivio del terreno.
I bizzarri abitanti del quartiere, declinati secondo appartenenza al nucleo abitativo, ne godevano i benefici nelle torride giornate estive, inzuppate di forte umidità favorita dall’avvallamento argilloso in cui erano accoccolate le case e dalla presenza del corso d’acqua che scorreva a poca distanza. Al calare del sole, però, come per magia, iniziava a spirare la bella brezza che, nel rinfrescare le mura surriscaldate, favoriva d’incanto sorrisi e chiacchiere che si allungavano da un balcone all’altro, planavano sulle panchine consacrate al rituale sociale, per ritrovarsi ancora nelle passeggiate alla luce dei pochi lampioni per “piglià na poco d’aria”.

UNA CITTA’ UNITARIAMENTE SENZ’ARIA

Da qualche anno lo zefiro è andato via e quello che era stato un luogo che aveva sperimentato in anni difficili forme di socialità per nulla inclini all’accondiscendenza al potere, osserva l’abbandono e il declino assediato tutto intorno dall’avanzare della città brutta, senza visione e senza senso. Potremmo dire, visti i tempi, una città unitariamente senz’aria. Come un Corviale o Serpentone che dir si voglia ha reso un ricordo il ponentino su Roma, i cinque enormi ed orribili fabbricati da 17 piani costruiti a partire dal 2014 sull’area dell’ex mattoneria Pupo, dove alla fine del secolo scorso il Festival delle Invasioni sperimentò musica e bellezza all’interno della vecchia fornace, hanno impedito per sempre l’aria da ponente lungo i bassi caseggiati del quartiere.
Resta, per i sempre meno e sempre più anziani resistenti, quella malsana di questi anni afosi e brutali. Non basta però, perché risalendo la strada in direzione est, verso Cosenza come si diceva un tempo, ed alzando lo sguardo subito dopo il curvone sormontato dal viadotto dell’autostrada – confine mai tracciato tra il quartiere dello Stadio e quello pomposamente chiamato la città 2000 anch’esso in forte degrado – si osserva una nuova imponente costruzione a molti piani che si staglia ancora più in alto essendo posta sulla collinetta argillosa che per molti anni ha ospitato nascosta nel verde la casa dei Gullo. “Vivere Cosenza in prima classe, confort abitativo e qualità della vita, per vivere nel benessere…” annuncia il grande cartellone posto alla base della costruzione.

CEMENTO OVUNQUE E TERRITORI ARTIFICIALIZZATI: UNA CITTA’ SENZA ANIMA

Termini classisti e panorama sul quartiere a valle. Altra aria e altra luce tolta alle basse case. Gli abitanti del quartiere se non se ne andranno, per come di fatto lentamente sta avvenendo, li manderanno via. Nessuna moral suasion. Agli squali di sempre e ai loro affezionati protettori servono spazi e aree urbane unificate. Volti sorridenti che dissertano di rigenerazione urbana e sviluppo sostenibile con la stessa credibilità con la quale il colosso dell’energia italiana che è tra le aziende più inquinanti al mondo dichiara senza vergogna di operare in modo responsabile a proteggere gli ecosistemi preservando l’ambiente e il pianeta. Cosi come è noto che l’industria mondiale del cemento inquina più di intere nazioni come Usa e Cina messe assieme.

Il cemento viene versato ovunque e ha artificializzato i territori. Si producono stampi, edifici identici che trasformano ogni luogo in nessun luogo. In città si costruisce in ogni anfratto e senza remore in tempi in cui l’intervento pubblico è inesistente o, meglio, rappresenta in toto l’interesse privato senza che quest’ultimo si debba sforzare, per come avviene da altre parti, nemmeno a immaginare concessioni al bene comune. Basta annusare l’aria malsana che ha invaso la via Popilia, la strada che un tempo era delle segherie, dei piccoli artigiani, delle officine e che era attraversata da una magnifica e poco allineata umanità che condivideva spazi e affetti con gli zingari di Via Reggio Calabria come con le puttane che risalivano di sera da via Sprovieri.
Poco e niente è rimasto in piedi, tra infiniti marchi di supermercati e servizi pubblici in via di spostamento in luoghi lontani dal centro città qual è ormai da considerare la parte sud di Via Popilia.

SENZA FUTURO O FORSE NO

Asfissianti fabbricati a far muro, questo sì divisorio – altro che il vecchio e tanto vituperato rilevato ferroviario – all’aria fresca proveniente dalla Sila come alla visione della città vecchia sempre più dolente ed abbandonata al suo destino. Cubature sempre più in altezza, come nel Medioevo dove si faceva a gara ad avere la casa-torre più alta per ostentare la propria posizione socio-economica e per essere perfettamente allineati al conformismo e alle conseguenti derive della retorica della rigenerazione urbana sugli spazi considerati non più produttivi.
Le magnifiche avventure speculative in corso e quelle che verranno sono ovviamente sconosciute agli abitanti piuttosto indotti a bisticciare (poco, a dir la verità) sul nome di una ineluttabile futura città unica con un referendum farlocco che non incide su alcuna decisione. Siamo senza futuro o forse no visto che in città cresce un brusio, una insofferenza, una intolleranza ai poteri, una necessità d’aria, un qualcosa che inizia a prendere forma, magari è una piccola pietra che rotola. Vedremo. Intanto i più anziani resistono a modo loro e nei quartieri dimenticati ripetono gesti e carezze antiche ridando vita e decoro ai piccoli spazi pubblici abbandonati. In uno di questi l’altro giorno il giovane ulivo ha dato vita a quattro piccole olive bianche.

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