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Stefano Rodotà

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di ANTONIO TURSI

NON importava se le nostre chiacchierate, tra il salotto di casaSegue dalla prima pagina sua, la fondazione Basso, qualche caffè di Roma, fossero state lunghe o brevi, a un certo punto Stefano Rodotà le interrompeva e prima dei saluti mi chiedeva: “come vanno le cose in Calabria? Aggiornami sulla situazione”.

Si riferiva naturalmente alle vicende politiche di questa regione, di cui entrambi eravamo appassionati osservatori. Mai a Stefano Rodotà è venuto meno l’interesse per la terra natia.

 (LEGGI LA NOTIZIA DELLA MORTE DI STEFANO RODOTÀ)

 

Spesso si limitava ad ascoltare, quasi sempre mi incoraggiava a continuare ad impegnarmi. Anche quando decisi di appoggiare la candidatura di Renzi a segretario del Pd, lui comprese e condivise le ragioni.

Qualche volta lasciava cadere qualche battuta su vecchie conoscenze, in positivo come su Loiero per esempio (“è attrezzato, anche se è un compito arduo governare la Calabria”) o meno come su qualche compagno del Pci: “pare non sia cambiato niente, mi riporti gli stessi nomi di quando scendevo io a fare le campagne elettorali”.

Perché Rodotà, dopo tanti anni di impegno accademico lontano da Cosenza, la Calabria l’ha ri-conosciuta paese per paese, “girando caseggiato per caseggiato” nel corso delle campagne politiche degli anni Ottanta in cui fu eletto deputato. Le nostre vicende si erano addirittura incrociate in quelle occasioni quando, come d’uso dopo i comizi, si cenava nelle case dei compagni.

Naturalmente allora ero troppo piccolo per sviluppare una vivida memoria. Ma lui colpì – caso raro tra i politici di passaggio – mia madre che ne ha sempre serbato un ricordo piano di stima.

Ho ri-conosciuto Rodotà tanti anni dopo, nel 2004: lontani entrambi dalla politica. Lui presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, io giovane dottorando di ricerca incaricato di organizzare all’Università La Sapienza di Roma un convegno sul rapporto tra democrazia e nuove tecnologie di comunicazione. Un convegno a cui parteciparono anche altri importanti miei maestri e suoi amici come Alberto Abruzzese e Derrick de Kerckhove e i cui atti uscirono per l’editore Apogeo (“Dopo la democrazia?”).

Da allora le occasioni di confronto sono state innumerevoli perché Rodotà, pur nato nel 1933, aveva quella curiositas che gli faceva esplorare le nuove frontiere della conoscenza e le sfide politiche che da lì emergevano. Temi come la tecnopolitica o il corpo digitale sono stati tra quelli in cui i suoi argomenti hanno illuminato il dibattito. Da qui la sua disponibilità e il suo riconoscimento nei miei confronti: “mi devi sempre invitare a queste cose perché mi appassionano e ne traggo stimoli importanti”.

E così un altro volume ci ha visto subito dopo coinvolti entrambi, “Post-umano”, e poi la sua prefazione al mio “Politica 2.0” e la mia dedica dell’ultimo lavoro “A Stefano Rodotà, exemplum di politica e altra-politica”, per la quale mi espresse la sua commozione. Un uomo di passione, politica e culturale, dunque, che mi ha lasciato un ultimo insegnamento. Esprimendogli i miei dubbi sulla possibilità di fare qualcosa a sinistra del Pd (lui ne stava ragionando con Landini), mi disse: “Ci proviamo. Sicuramente non riusciremo a fare qualcosa di nuovo, mettendo insieme i cocci vecchi”. Un uomo di passione per il futuro. La sfida è quella di essere sempre all’altezza di questa sua apertura all’avvenire. Antonio Tursi

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