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di NUCCIO ORDINE
LA scomparsa di Stefano Rodotà lascia un vuoto incolmabile nella vita civile del nostro Paese: i suoi rigorosi saggi su delicate questioni giuridiche, i suoi appassionati discorsi sulla libertà e sulla democrazia, le sue coraggiose battaglie a difesa del “diritto di avere diritti”, i suoi numerosi appelli alla solidarietà umana, le sue critiche alla politica intesa come immorale esercizio dei propri interessi, il suo amore per l’insegnamento, il suo prezioso sostegno alla cultura umanistica hanno segnato e orientato – nel corso degli ultimi decenni – le coscienze dei suoi lettori, dei suoi studenti e di tanti onesti cittadini.
(LEGGI LA NOTIZIA DELLA MORTE DI STEFANO RODOTÀ)
Ma Stefano lascia anche un terribile vuoto nelle vite dei suoi amici e di coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e frequentarlo. Proprio venerdì sera, dopo la diffusione della notizia, ho ripensato alla nostra ultima conversazione telefonica. A fine maggio, con la voce cortese e affettuosa di sempre, mi aveva promesso che ci saremmo rivisti presto se l’ospedale non l’avesse tenuto in “ostaggio”.
Ma il 29 maggio, al mio arrivo a Roma, con un sms mi annunciava che avremmo dovuto rinviare l’incontro. Poi, nonostante il silenzio, ho continuato a coltivare la speranza di una nuova possibile occasione. Adesso, in queste ore di dolore e smarrimento, ho cercato di raccogliere le forze per ricordare un amico, un maestro, un uomo esemplare che mi ha accompagnato negli anni della mia formazione. Già nel 1974, quando frequentavo ancora il liceo, le sue lucide riflessioni sul divorzio mi erano servite per combattere la mia piccola battaglia in un ambiente ostile e conservatore come quello calabrese di quegli anni. Ma soltanto nel 1983 ho avuto la gioia di conoscerlo a Roma nelle riunioni del coordinamento nazionale dei dottorandi di ricerca organizzate alla Sapienza dal rettore Antonio Ruberti (poi ministro dell’Università e della Ricerca).
Erano gli anni pionieristici del Dottorato, appena istituito, e il contributo di Stefano negli incontri era straordinario: restavamo ore per ascoltarlo, a bocca aperta, mentre ci spiegava l’importanza di questo nuovo canale di formazione che, attraverso la crescita di giovani studiosi, avrebbe elevato l’Italia all’altezza delle altre grandi nazioni europee. Mi colpirono immediatamente la sua gentilezza e la sua umanità: due tratti significativi del suo carattere che poi, nel corso dei decenni, ho ritrovato sempre intatti, anche nei momenti più alti del suo successo professionale e politico. La chiarezza argomentativa, la profonda cultura, l’inesauribile passione civile, la generosità intellettuale, il sapiente equilibrio tra ironia e autoironia sono stati per me un modello ineguagliabile.
Stefano era capace di incantare ogni tipo di pubblico: in una piazza, in un’aula universitaria, in una pubblica assemblea, in uno studio televisivo la sua brillante eloquenza e la forza argomentativa dei suoi ragionamenti non potevano lasciare indifferenti il suo uditorio. E soprattutto tra i giovani studenti dava il meglio di sé. L’ultima volta lo avevo ascoltato a Camigliatello, in Sila: in un salone gremito di liceali, il grande giurista spiegava l’importanza dello studio e della cultura per diventare migliori, per diventare cittadini e professionisti in grado di amare il bene comune e di costruire una società più giusta e più equa. Nessuno più di lui ha saputo richiamare l’attenzione sulla parola “solidarietà”.
Con l’aggravarsi della crisi economica e con l’acuirsi dei conflitti sociali, anche grazie ai suoi interventi, i vari significati di “solidarietà” (vincolo civile, reciproca assistenza, partecipazione umana e morale alle difficoltà e al dolore dell’“altro”) sono ritornati al centro del dibattito per evidenziare i limiti di una visione del mondo che vuole subordinare ogni aspetto della vita umana alle leggi del mercato e della finanza. Limiti che hanno incrementato, soprattutto, la crescita di movimenti politici gestiti da veri e propri “imprenditori della paura”: in molti paesi europei il successo elettorale sembra essere garantito da formazioni che, facendo leva sulle difficoltà economiche e sui disagi sociali, scatenano le pulsioni identitarie più violente, terreno di coltura del razzismo, della xenofobia, dell’egoismo, della lotta tra poveri.
Nei suoi libri e nei suoi numerosi interventi Stefano ha denunciato le scelte contraddittorie delle istituzioni europee che, attraverso la politica del rigore, hanno rinnegato i principi affermati nell’articolo 34 della Carta dei diritti, in cui viene riconosciuta la necessità di garantire comunque un’esistenza dignitosa a chi non ha risorse sufficienti. Bisognava, per lui, ripartire dalla scuola, dall’università, dalla cultura, dal grande patrimonio dei classici europei per educare le nuove generazioni alla solidarietà e all’amore per il bene comune. Per questo aveva aderito con grande entusiasmo alla nostra iniziativa di creare nella sua Cosenza, nel cuore del centro storico, una biblioteca dedicata a Bernardino Telesio, a Giordano Bruno e a Tommaso Campanella.
Degli ultimi due filosofi, in particolare, amava l’utopica spinta rivoluzionaria e il coraggio di professare l’eresia. Del resto, fino all’ultimo respiro, Stefano – eretico per eccellenza – non ha mai rinunciato a navigare controcorrente, a esprimere il suo dissenso, a “mettersi dalla parte del torto” (come diceva Brecht). A trasformare, insomma, il suo sapere in una maniera di vivere, a far coincidere pensiero e vita. Adesso, senza di lui, saremo più soli. Ma l’unica maniera per ricordarlo degnamente sarà quella di continuare a combattere le stesse battaglie che lui ha combattuto per rendere l’umanità più umana.
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