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Ninfa, in uno scatto di Gaetano Gianzi, mentre è al lavoro sul reportage per il Corigliano Calabro Fotografia

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Pino Ninfa, fotografo e viaggiatore, a Corigliano-Rossano per un reportage sul territorio e si è aperto in una intervista al Quotidiano


OGNI volta che devo intervistare un grande fotografo so che si finirà per parlare di molto altro oltre che di immagini e questa è una cosa bella, come bella è stata la conversazione con Pino Ninfa, insignito del titolo di Fotografo dell’Anno alla nuova edizione del festival Corigliano Calabro per la Fotografia, un appuntamento che ha superato i primi vent’anni di vita, diventando realtà affermata e non solo in Calabria.

Partendo dalla fotografia siamo finiti a parlare di jazz, di Vietnam, della restanza di Vito Teti, di Mimmo Lucano, dei fumetti di Hugo Pratt e di viaggi. Perché con le foto di Pino Ninfa si viaggia verso un altrove.
Pino Ninfa, fotografo di fama internazionale. Viaggiatore instancabile e curioso, è nato a Catania da dove è partito all’età di 17 anni alla volta di Milano. L’interesse per la musica e per il sociale, hanno fondato il senso complessivo del suo lavoro fotografico. In questi giorni si trova a Corigliano-Rossano per completare il reportage che presenterà a settembre al festival della fotografia.

«Il fatto di essere stato scelto come autore dell’anno per dare il mio contributo a questo festival è una cosa che mi onora moltissimo e mi fa molto piacere. Cerco di fare le foto che sono un po’ nella mia modalità di lavoro, quindi esplorazione dei luoghi, catturare delle atmosfere, lavoro sulla memoria, sulle tracce. È un percorso articolato quello che seguo, quindi, soprattutto cerco sempre questo rapporto tra passato e presente che al Sud secondo me c’è ancora, per fortuna, molto forte in molte situazioni, in particolare nei luoghi del centro storico. Secondo me questa cosa è proprio non forte, fortissima, oltre. A volte questo gioco, quando lo si incontra, diventa davvero suggestivo».

Tu hai girato molte parti del mondo, soprattutto per raccontare quei posti che spesso non hanno voce e non sono visti nel circuito mainstream. Quanto è importante per te questo tipo di lavoro?

«Questa per me è una parte fondamentale di quello che faccio, sono arrivato io stesso a cercare questa modalità dopo tanti anni che ho passato nel mondo della musica, lavorando nelle kermesse, dentro i tour. Ho seguito veramente tournee di ogni genere, da Vasco Rossi ai REM e ho fatto anche moltissimi lavori in ambito jazz, che è la mia vera cifra stilistica, dalla quale ho voluto in qualche modo staccarmi per entrare in questa modalità di incontro del mondo. Un risultato a cui sono arrivato grazie anche alla sensibilità che mi è arrivata dall’aver lavorato nel mondo della musica, e in particolare perché ho sempre sviluppato l’idea che il palcoscenico, in realtà fosse la casa del musicista».

Conosco la tua grande passione per la musica. Come coniuga un fotografo, suoni e immagine? Come si rappresenta la musica nell’immagine?

«Questa è una bella domanda. Io sono arrivato a un certo punto della mia modalità di lavoro a creare delle performance. E quindi la performance mi ha dato modo di ampliare un po’ quelli che sono i miei orizzonti, cioè mi sono accorto, a un certo punto, che le mie immagini in qualche modo avevano una musicalità. Questa musicalità ho iniziato a collegarla proprio con la performance e ho lavorato principalmente sul fatto che suono e visione hanno un rapporto.
Un rapporto che è emotivo, un rapporto che ti porta a fare un viaggio. Un rapporto che comunque si colloca in una situazione molto spesso esplorativa, quando si crea, come dire un’atmosfera in cui senti proprio che il pubblico sta partecipando e alla fine quando la performance termina, lo senti nell’applauso. È sempre un sintomo importante, no? Si sente quando un applauso è di circostanza oppure un applauso perché comunque c’è soddisfazione, c’è stato il piacere di aver visto questa cosa».

Il tuo amore per la musica mi ispira un’altra domanda legata ai linguaggi. Tu pensi che la fotografia sia solo immagine o riesca a debordare dalla cornice?

«Deborda, assolutamente, la fotografia è un modo. Credo che sia uno dei modi, perché poi ce ne sono altri, la letteratura ad esempio. È un modo per poter incontrare il mondo, le cose, la mente. È una modalità che tu devi in qualche modo cercare. Devi creare una storia per cui poi dopo questo incontro si riesca ad andare al di là dell’immagine. Per esempio adesso sto facendo qualche foto. Ce n’è una in cui c’è un muro ed io la metterò nel reportage perché io sono anche un grande appassionato di muri.
Di quest’arte informale americana. Ecco, c’è un muro in cui è evidentissimo che ci sono queste due figure di di animali che però sono indefiniti, ma sono tracciati nel muro. Sono dati da dei segni del tempo. Il limite è sempre un tentativo, c’è sempre un tentativo di varcarlo E quindi il limite è il fatto di uscire dallo stereotipo, di uscire dalla consuetudine. Quindi la cornice non è semplicemente una cosa fisica in cui qualcosa sta lì dentro. La cornice è anche il modo con cui si vive la determinazione del mondo».

Se c’è un elemento comune nella tua opera, inoltre, quello che vedo io è il viaggio e soprattutto guardando le tue foto mi vengono in mente due autori, non due fotografi, ma due scrittori come Chatwin e Kapuscinski. C’è quella necessità di andare, di raccontare, è un elemento che tu senti e come lo senti?

«Per me è preponderante il racconto, ho la necessità di fare in modo che le mie fotografie possano ambire a raccontare delle storie e quindi cerco sempre di trovare in una foto molto spesso più situazioni. Una foto per me è una scena ed è come se la vita fosse un teatro continuo. Questo teatro continuo al fotografo dà l’opportunità di poter incontrare il racconto. Allora il fotografo si chiede se gli attori sono le persone che vivono la vita di tutti i giorni oppure sono delle cose inanimate lì sulla foto, nella cornice?
Quando si inizia a ragionare sull’inanimato è davvero la fantasia che galoppa, come galoppano la letteratura ed il cinema. Tutto si anima attraverso i vari linguaggi. Però l’animato è fantastico perché poi a un certo punto quando si anima diventa un viaggio nuovo ed incredibile. Penso per esempio a tutti i lavori che faccio con i siti abbandonati. Il luogo sembra inanimato, ma in realtà è il contrario. Nel capovolgerlo in quel luogo si sentono presenze all’infinito, se uno ha la necessità e la voglia di ascoltarle. Allora questo ascolto per esempio mi aiuta molto, mi porta a fare degli incontri inaspettati grazie alla luce e allora vedi quante cose poi si mettono insieme. E la cornice? Rimane, però si allarga, e questa cosa si allarga, fino ad uscire dai confini, anche se la foto rimane sempre bidimensionale, prende un’altra vita e comincia a raccontare».

Che luce vede Pino Ninfa nella Calabria, che foto lo ispira?

«Ma sai, c’è una luce magica. Il fatto è che la luce la devi voler incontrare. Ogni luogo possiede secondo me una sua luce e una sua peculiarità. La Calabria ha questa, quella della magia mediterranea. Io sono stato in tante parti della tante Calabria e quindi dalla Locride all’Aspromonte. Ho seguito alcune feste religiose proprio l’anno scorso a Verbicaro, quella dei vattientii. Queste performance mi hanno ricordato altri grandi viaggi, l’ultimo per esempio che ho fatto sul voodoo in Togo, a febbraio. Io le abbino molto alla spiritualità mediterranea che sento presente qui».

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