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Giuseppe Cirò e Mario Occhiuto

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COSENZA – Mario Occhiuto contro Giuseppe Cirò. E viceversa. L’inchiesta sulla rimborsopoli di Palazzo dei Bruzi si fonda su questo conflitto all’ultimo sangue: la parola del sindaco contro quella del suo ex segretario.

E il fatto che oggi si ritrovino entrambi indagati per truffa, peculato e falso, dimostra quanto le rispettive verità siano parallele e dunque inconciliabili. Il tema è quello delle spese sostenute dal primo cittadino tra il 2013 e il 2016 per una serie di missioni istituzionali, in gran parte nella Capitale, che hanno comportato l’acquisto di biglietti aerei, il pagamento di alberghi e di spese conviviali di volta in volta rimborsati dal Municipio. Il punto è che, in realtà, tali viaggi non si sarebbero mai svolti.

Questo, almeno, è il sospetto della Procura che quantifica in quasi novantamila euro la cifra sottratta alla disponibilità del Municipio in quattro anni grazie anche alla produzione di ricevute false che avrebbero indotto in errore il settore Economato.

Al riguardo, Occhiuto non ha dubbi: la colpa è tutta di Cirò. A marzo del 2017, il capo di gabinetto Antonio Molinaro si accorge che qualcosa non va nella rendicontazione di quelle spese, ragion per cui convoca Cirò e lo porta al cospetto del sindaco davanti al quale ammette le proprie responsabilità del caso, viene licenziato in tronco e, poche ore dopo, denunciato in Procura.

È questa la verità di Occhiuto alla quale in seguito si opporrà quella del suo ex segretario. Cirò, infatti, sostiene di non aver mai intascato neanche un euro, ma di aver sempre consegnato tutti quei soldi al primo cittadino che, oberato dai debiti, aveva un costante bisogno di denaro liquido per ottemperare alle sue spese quotidiane e pertanto gli aveva chiesto di trovare un modo per procurarglielo.

Una sorta di mandato generico a delinquere, insomma, che lui avrebbe poi tradotto a modo suo, inventandosi il giochetto dei rimborsi. Sostiene di averlo fatto «per riconoscenza», dal momento che l’incarico assegnatogli da Occhiuto rappresentava per lui un importante rinforzo allo stipendio da impiegato della Regione.

Sempre Cirò, inoltre, conferma il colloquio a tre con il sindaco e con Molinari, in un clima «teso ma civile», durante il quale avrebbe approfittato della presenza del capo di gabinetto per richiamare Occhiuto alle sue responsabilità del caso, ma senza ottenere soddisfazione.

A quel punto, gli sarebbe stata offerta la possibilità di dimettersi per mettere a tacere lo scandalo, soluzione da lui accettata prima che gli eventi prendessero, suo malgrado, una piega molto diversa. Accuse concrete o insinuazioni «dettate dal risentimento» come sostiene, invece, Occhiuto?

Di certo, al momento, c’è che solo uno di loro dice il vero e l’altro mente; e che soluzioni intermedie sembrano difficilmente ipotizzabili. Nel corso degli anni – quattro ne sono trascorsi prima che l’indagine fosse portata a conclusione – il clima di sospetto e di incertezze ha finito per sfiorare anche i magistrati che si sono alternati a seguire il caso, tirati per la giacca e additati di volta in volta come “amici” o “nemici” di una delle due parti in causa.

Anche in questo caso, però, la certezza è che a chiudere l’inchiesta, alla resa dei conti, è stato il pm Giuseppe Visconti, al cui nome è davvero arduo – se non impossibile – associare ombre o pensieri speculativi. E al momento, la linea da lui scelta è quella del “tutti dentro”. Mancano cinque giorni alla scadenza dei venti che intercorrono solitamente tra la chiusura delle indagini e le richieste di rinvio a giudizio, e dal momento che rispetto al quadro iniziale gli indagati sono aumentati – con Occhiuto e Cirò ci sono anche due ex funzionari dell’Economato – tutto lascia presagire che la Procura chieda il processo per tutte e quattro le persone coinvolte nell’inchiesta.

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