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Omicidio di Verbicaro, il racconto del nipote Biagio del rapporto con la vittima Ugo Lofrano: «Mio zio mi trattava come un cane. Avevo finito e voleva che lavorassi ancora»
VERBICARO – Il centro montano dell’alto Tirreno cosentino, il comune di Verbicaro, si appresta a dare l’ultimo saluto ad una persona buona, affabile, così la descrivono in paese. “Ughiciedd”, era questo il nome con il quale si rivolgevano al povero meccanico Ugo Lofrano, 74 anni, vittima, mercoledì sera, della mano violenta del nipote nell’officina meccanica. Un caso che ha scosso l’intero alto Tirreno cosentino e non solo, soprattutto perché si è consumato nello stretto ambito familiare: zio e nipote si trovavano sul luogo di lavoro, l’officina di via Marconi. Un’attività che più volte e a più persone, la povera vittima aveva confidato di voler lasciare in eredità al nipote Biagio. “Ughiciedd” non si era sposato e aveva riposto tutte le sue speranze proprio sul nipote 41enne.
Questa mattina, alle 11.15, il corteo funebre è partito dal cimitero cittadino verso la Chiesa madre, nel centro di Verbicaro. Non era presente il nipote Biagio Lofrano che come è noto si trova rinchiuso nel carcere di Paola dopo la convalida dell’arresto da parte del Gip. Si ritroverà nella sua cella probabilmente a riflettere su uno screzio, un litigio, finito in maniera violenta. “Lavoro, da quando avevo l’età di 10 anni, in qualità di meccanico, presso l’officina di mio zio, Ugo Lofrano”, ha confermato il 41enne.
OMICIDIO DI VERBICARO, IL RACCONTO DEL NIPOTE
Un rapporto stretto con lo zio: “Durante la pausa pranzo, andavamo a mangiare a casa di mia madre e spesso veniva anche mio zio”. Ma talvolta fra Biagio Lofrano ed “Ughiciedd” qualche discussione nasceva. Era probabilmente un modo per cercare di insegnare il lavoro di meccanico mantenendo forse un po’ di rigidità, quello dei maestri di una volta. «Sul luogo di lavoro mi sgridava spesso, si lamentava del mio modo di lavorare. Quando mio zio si arrabbiava, mi arrabbiavo anche io. Ogni tanto è capitato che mi tirava qualche schiaffo. Io non ho mai reagito».
Eppure, nel pomeriggio di mercoledì, qualcosa è scattato, forse l’ennesima sgridata ha generato una reazione di impulso, Biagio Lofrano ha imbracciato un tubo di ferro, i più esperti sostengono che si tratti di un semiasse, e lo ha sferrato sul capo di Ugo Lofrano fino a farlo tramortire per terra.
Il racconto del pomeriggio di mercoledì scorso: «Dopo aver finito il lavoro su una macchina ero molto stanco e volevo andare via, considerata anche l’ora tarda. Mio zio mi diceva che dovevamo riparare altre autovetture. Dopo l’ennesima sgridata non ci ho visto più e, in quella circostanza, ho preso un palo che era in officina e l’ho colpito 2, 3 volte, non ricordo con esattezza quanti colpi ho inferto, all’altezza del capo. Mio zio mi trattava come un cane».
LA MORTE DELLO ZIO E L’INTERVENTO DEI FAMILIARI E DEGLI INQUIRENTI
Dopo aver visto lo zio cadere per terra e aver compreso che non era più cosciente il 41enne è uscito dalla saracinesca, che era aperta a metà, e l’ha chiusa. Il rientro a casa a piedi. Circa mezz’ora. Il drammatico racconto ai suoi genitori. Poi, il ritorno in officina insieme al padre, con i pantaloni ancora intrisi di sangue. «Solo in seguito è giunta mia sorella, la dottoressa e poi i carabinieri».
Un ulteriore frame di quel tragico pomeriggio: “Quando ho colpito mio zio, lo stesso non ha provato a difendersi. All’interno dell’officina ero solo con mio zio. Alcuni clienti avevano già ritirato le macchine che abbiamo riparato prima che io colpissi mio zio. Dopo aver colpito mio zio, ho lanciato il tubo in una zona dell’officina, in mezzo ad altri attrezzi di lavoro. Oggi (mercoledì) ho pranzato insieme a mio zio e la situazione era tranquilla. A lavoro la situazione è degenerata”. Nel corso dell’interrogatorio, in sede di convalida Biagio Lofrano, però si è avvalso della facoltà di non rispondere.
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