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Panetti di cocaina

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COSENZA – La cocaina è tornata a circolare copiosa in città dopo un periodo di tregua dovuto principalmente al lockdown. Lo dimostrano i sequestri operati in serie nelle ultime settimane dalle forze dell’ordine, con ingenti quantitativi – mai inferiori al chilo – sottratti a spacciatori noti e meno noti della città.

Si tratta ovviamente di carichi già di proprietà dei clan locali che da anni, ormai, considerano il narcotraffico come un’attività da svolgere in monopolio e senza concessioni per pusher autonomi o estranei al giro della criminalità.

Un settore importante, talmente cruciale da far sì che anche il nuovo assetto delle cosche cosentine, fotografato dall’inchiesta “Testa del serpente”, passi soprattutto dagli accordi stipulati in tema di stupefacenti.

Argomento scottante, perché proprio la gestione delle droghe è stata, negli anni scorsi, causa di dissapori, di rottura di alleanze e, talvolta, di derive armate, un rischio che a quanto pare i nuovi capi hanno scongiurato mediante la stesura di un vero e proprio codice che ha avuto l’effetto di mettere tutti d’accordo. Si chiama “Sistema”; un collaboratore di giustizia, fra gli altri, lo definisce così.

«Sistema significa accordo, accordo fra diciamo fra bande per non essere magari o in lite o in guerra. Magari se c’è qualche problema, cioè se lo risolvono diciamo facilmente senza magari andare oltre». A esprimersi in questi termini è Celestino Abbruzzese alias Micetto, un membro della famiglia Banana che, secondo la Dda di Catanzaro, comanda nella città di Cosenza.

Negli atti di “Testa del serpente” sono riportati ampi stralci dei suoi verbali, compresi quelli in cui il pentito si sofferma sul funzionamento del cosiddetto “Sistema”: «Allora, diciamo ci siamo gli zingari, diciamo se hanno la possibilità di fare arrivare un tot di quantitativo e magari se la suddividono con gli italiani e la stessa cosa viceversa fanno gli italiani. Quando arriva si suddivide insieme agli zingari».

Un accordo che riguarderebbe la cocaina, il fumo e l’erba, ma non l’eroina, perché quella «la prendevamo direttamente i fratelli “Banana”, più mio cognato diciamo». Il monopolio della nera alla famiglia di etnia rom e una gestione democratica per tutte le altre sostanze: sarebbe questo il fulcro dell’accordo che, manco a dirlo, deve confrontarsi con la concorrenza sleale di spacciatori troppo autonomi; un virus – nome in codice «sottobanco» – per il quale sono pronti gli anticorpi.

«Tipo ci sono delle persone che purtroppo a Cosenza fanno il sottobanco – afferma il collaboratore – tipo ne tolgo un chilo ogni quindici giorni e poi ci metto un mese per toglierne un chilo, significa che c’è il sottobanco. E là bisogna vedere chi è che lo sta facendo. Molte volte mettevamo persone proprio per controllare questa situazione dove ne abbiamo trovate molte e una volta trovate e assicurate che fossero stati loro, venivano presi, picchiati e poi costretti a versare tipo cinquanta, sessanta, settantamila euro per l’ammanco che aveva causato sul lavoro che svolgevamo».

Gli fa eco Giuseppe Zaffonte, fuoriuscito dal clan Lanzino, testimone di come le organizzazioni criminali non controllino più in modo diretto le piazze di spaccio, ma si occupano solo dell’acquisto dei grossi carichi di eroina e cocaina, obbligando poi tutti gli spacciatori indipendenti a rifornirsi da loro.

Quest’ultimi, dunque, godrebbero di maggiore autonomia rispetto al passato: possono smerciare la droga e crearsi una rete personale di rivenditori a patto che per la fornitura iniziale si rivolgano sempre e solo al Sistema. In caso contrario, si verifica quello che anche lui definisce «sottobanco», ovvero l’acquisto degli stupefacenti da canali non autorizzati. Chi persegue questa strada, spiega Zaffonte, rischia un pestaggio o addirittura la vita.

Una sorta di liberismo applicato al narcotraffico, insomma, ma con alcuni correttivi di stampo sociale a tutela di tutti i promotori: l’accordo, infatti, prevede che qualora uno dei gruppi in questione riesca a rifornirsi in anticipo rispetto agli altri, ceda loro una parte della sostanza a prezzo di costo.

«All’interno del Sistema si sa sempre a chi rivolgersi» aggiunge Zaffonte, precisando che i singoli spacciatori possono saltare da un fornitore all’altro, «perché tanto è sempre la stessa cosa».

Ad ampliare il contesto di riferimento è poi Anna Palmieri, la moglie di Micetto, che definisce il Sistema come «il circuito» entro il quale si possono compiere determinati tipi di delitti, comprese le rapine. «Bisogna essere affiliati a qualche gruppo o essere autorizzati per svolgere queste attività – afferma la donna – altrimenti se ne pagano le conseguenze». Chi sbaglia, suggerisce la donna, viene «picchiato o sparato» e in più deve anche pagare il «disturbo», ovvero una cifra di risarcimento alle cosche. E a proposito dei soldi: quelli, secondo la Palmieri, confluiscono in una cassa comune, la cosiddetta bacinella, che a suo avviso è legata in modo indissolubile al Sistema – «Coincidono e camminano insieme» – perché hanno la funzione comune di garantire stipendi e coperture legali agli affiliati, ai detenuti e alle loro famiglie.

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