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Una classe vuota

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QUANDO c’è stata la scossa, mia figlia e i suoi compagni di classe sono stati invitati dalla prof a mettersi ciascuno sotto il proprio banco. Poi, accertatasi che tutti fossero al sicuro, si è come accovacciata sotto la cattedra, aspettando che finisse.

Quindi, a uno specifico suono della campanella, li ha accompagnati, in fila per due, all’aperto. Ha, insomma, rispettato il relativo protocollo d’emergenza, e, da buon docente, si è spesa per i propri studenti. E io ho pensato, a proposito di scuole che tremano e di buoni docenti, a quanto mi è accaduto una quarantina di anni fa, quando l’alunno ero io.

Ci fu una bella scossa. Tutto tremò. Il mio prof (che poi a quei tempi lo si chiamava per esteso “professore”) si alzò di scatto. Prese il suo borsello di pelle marrone, corse verso la porta e fuggì via. Non ci disse nulla. Sparì. Rimanemmo da soli in classe, basiti e un po’ indecisi sul da farsi. Poi la terra non sussultò più e la cosa finì lì. Che in effetti il terremoto, quando non è catastrofico, è questo: arriva all’improvviso, preferibilmente di sera come l’uomo nero, ruggisce, mette paura, alimenta il senso di impotenza dell’essere umano di fronte a madre natura e se ne va.

Il giorno dopo quel mio professore si giustificò dicendo che era scappato perché temeva per le sorti della figlia. Non so se fu una scusa. Fatto sta che da buon Schettino abbandonò la sua nave e i suoi uomini. Oggi una cosa del genere credo possa costare anche il licenziamento oltre che una giusta sommossa dei genitori degli alunni abbandonati a se stessi.

Penso a questo episodio, ogni volta che la terra decide di farmi sussultare, impaurire e farmi sentire miseramente mortale. Penso a quell’uomo che scappa dalle sue responsabilità. Non è stato un buon esempio e, ora che sono prof, cerco di essere il suo esatto contrario. Anzi, quando ho deciso di sedermi dietro a una cattedra mi sono imposto di essere il professore che avrei voluto avere io e non certo quello che ti lasciava solo nel momento del vero bisogno oppure che, un po’ umiliandoti, gettava i tuoi quaderni in aria se l’esercizio non era fatto bene.

Quando la terra ha tremato io ero in macchina. Quindi non ho sentito nulla. Stavo andando a scuola. E, quando ho preso posto in cattedra, ho chiesto ai miei alunni come stavano e come era andata. Era filato tutto liscio, con la scuola che si era subito messa in moto col piano di emergenza. Alcuni la scossa neanche l’hanno sentita.

La mia lezione ha quindi avuto inizio con il significato della parola terremoto: “Terrae motus, ricordatelo ragazzi. Sono pochissime le parole che non derivano dal latino o dal greco. Noi di fatto parliamo queste due lingue che alcuni non vogliono più che si insegnino, perché vecchie. Io le farei studiare in tutte le scuole”. 

E ogni volta glielo ricordo. Loro (stiamo parlando di scuole professionali), sanno di questo mio “tic culturale”, e pazientemente ascoltano e imparano. Questa forte scossa mi ha fatto ricordare ancora una volta come sia importante il ruolo del docente, che deve prima cosa di tutto saper proteggere, saper essere vicino ai bisogni e alle paure dei propri alunni, che sono come dei figli. Il mio prof disse di essere scappato via dalla sua vera figlia. Ma ci ha lasciato soli. Per me quel giorno è andato via definitivamente. Sarebbe un vero terremoto se uno solo dei miei alunni dovesse arrivare a pensare di me la stessa cosa.

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