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Il carcere di Cosenza

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COSENZA – «Sto malissimo, non ce la faccio più. Mi stanno ammazzando. Chiama l’avvocato per l’istanza di scarcerazione». È il disperato appello che il detenuto cosentino Pasquale Francavilla rivolge alla moglie una volta rientrato in carcere dopo una settimana trascorsa in ospedale.

«Amore, ho paura di non rivederti più» dice alla consorte, un presentimento che, purtroppo, due giorni dopo troverà conferma. Il 10 settembre, infatti, Francavilla si spegne in una cella del carcere di Cosenza all’età di 46 anni, ufficialmente per un infarto, e la sua morte è ora oggetto di un’inchiesta da parte della magistratura del posto, chiamata a verificare quali responsabilità umane si celino dietro la tragedia.

Il sospetto, sempre più concreto, è che l’uomo sia stato riportato troppo in fretta dietro le sbarre, che avrebbe dovuto restare ancora in ospedale o andare ai domiciliari, ma in attesa che il tempo e gli investigatori facciano chiarezza definitiva su questi e altri aspetti, non resta che il dolore: quello dei familiari. La disperazione della vedova, interpellata telefonicamente, è affidata ancora al ricordo della loro ultima videochiamata: «L’ho visto piangere per la prima volta in trent’anni. Mi ha sempre nascosto le cose quando non si sentiva bene, faceva così per non farmi preoccupare. Stavolta non ce l’ha fatta a dissimulare», spiega la donna tra le lacrime.

L’antefatto è noto: a fine agosto, Francavilla è colpito da una trombosi a una gamba che il 31 del mese determina il suo trasferimento d’urgenza dalla casa circondariale all’Annunziata. Resta una settimana in terapia intensiva e, l’otto settembre, l’ospedale dà il via libera alle sue dimissioni. A rievocare quel calvario ospedaliero è suo padre Francesco Alfonso che durante la permanenza in corsia di suo figlio, ha parlato più volte con i medici che l’avevano in cura, informandosi giornalmente sulle sue condizioni di salute.

«Mi dicevano che la situazione era gravissima. Dal 4 settembre in poi è subentrato un po’ di ottimismo, perché pur restando in condizioni molto critiche, il suo organismo stava reagendo bene alla terapia. Sia un medico che una dottoressa, però, hanno precisato che sarebbe servita una degenza molto lunga: almeno cinque o sei mesi».

È uno dei passaggi più controversi della vicenda: perché dopo pochi giorni si decide, invece, di rispedirlo in carcere? «Anche quell’otto settembre – rievoca l’anziano genitore – telefono in ospedale e apprendo che mio figlio è stato dimesso, ma nessuno sembrava sapere dove si trovasse». Pasquale Francavilla fa rientro dunque nella casa circondariale, un epilogo che il suo avvocato Mario Scarpelli reputa inopportuno fin dal principio. Il legale chiede che resti ancora in corsia, che sia assegnato a un reparto, o che in alternativa possa andare ai domiciliari, ma la sua istanza non trova accoglimento, e così per il suo assistito si spalancano nuovamente le porte dell’istituto di pena.

Il detenuto, però, non sta affatto bene. «Se ne stava sdraiato sul letto con delle asciugamani sotto la testa, sudava in modo molto vistoso – ricorda ancora sua moglie – e faceva fatica a respirare». Il 9 settembre, alla vigilia della fine, la donna parla ancora una volta con lui. La relazione medica che certifica la sua incompatibilità con il regime carcerario, le spiega Francavilla, è stata già trasmessa al magistrato di sorveglianza.

«Me l’ha detto il direttore del carcere» aggiunge, ed è anche questo un aspetto sul quale le indagini dovranno fare luce tra ritardi sospetti e possibili omissioni sullo sfondo di una tragedia che, quasi certamente, poteva essere evitata. Suo padre ne è certo: «I medici mi dissero che solo il cinque per cento delle persone che hanno avuto quello che ha avuto lui riesce a sopravvivere», il tutto a riprova di come fra i tanti aspetti oscuri del caso, quelle dimissioni così improvvise siano, al momento, quello più indecifrabile. Aveva quasi finito di scontare la sua condanna per associazione a delinquere e droga, sarebbe tornato in libertà a dicembre del 2022.

Malgrado il dolore lo tormentasse, nonostante i presagi funesti, era ancora progettuale. Lo è rimasto fino all’ultimo, come dimostra l’ultimo scambio di battute con la madre dei suoi figli. «Mi ha chiesto di acquistare i farmaci della terapia, nell’eventualità che lo rimandassero a casa. E poi mi ha detto di contattare l’avvocato Scarpelli per dirgli di andare in ospedale a ritirare la cartella clinica», conclude la donna.

«Gli interessava soprattutto la lettera di dimissioni» aggiunge prima che le lacrime abbiano il sopravvento. «Aveva pensato lui a pagare l’ospedale, nonostante stesse così male. Non doveva andarsene così. Spero possa avere giustizia». I medici legali incaricati dalla Procura hanno eseguito l’autopsia sabato scorso e il loro responso arriverà fra novanta giorni.

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