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L'inaugurazione dell'anno accademico del Dimes dell'Unical

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RENDE (COSENZA) – «Un padre di famiglia cerca di non guardare, se tra le braccia ha il cadavere di un bambino che potrebbe avere lo stesso peso di suo figlio»: quando Gaetano Rossi, volontario della Protezione civile di Isola Capo Rizzuto, con la voce rotta dal pianto, ha raccontato la fatica emotiva che ancora gli provoca riandare con la memoria alla strage di Cutro, l’aula “Caldora” dell’Unical strapiena di giovani che ascoltavano in religioso silenzio si è sciolta in un applauso che era come una carezza a quel portavoce di un “trauma collettivo”.

Il dramma materializzatosi a Steccato di Cutro, con la sua strage avvenuta in una gelida alba del 26 febbraio scorso ancora fa sentire i suoi effetti devastanti, proprio come il caso dell’Unical. Non c’è soltanto il dolore dei superstiti e dei familiari delle 94 vittime accertate (ma sono sei i dispersi) del tragico naufragio di migranti. Quella ferita è ancora aperta in chi intervenne nell’immediatezza. Sono voci spezzate dall’emozione quelle che ieri hanno ripercorso le sequenze dell’incubo, che adesso finisce sotto la lente accademica, perché la prospettiva si sposta su un piano scientifico. “Riemergere da Cutro. Migrazioni e accoglienza fra pratiche sociali, diritti e cittadinanza”: questo il tema del seminario del Dispes (dipartimento di scienze politiche e sociali) dell’UniCal per l’inaugurazione dell’anno accademico 2023/24 in occasione della quale è venuta fuori una riflessione a più voci sulle migrazioni.

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Il programma elaborato dal direttore del dipartimento, Ercole Giap Parini, si articolerà in una cinque giorni di studi che ha preso il via ieri. Ieri la centralità è andata alle “Testimonianze di una tragedia contemporanea”. Coordinati dalla docente e ricercatrice del Dispes Francesca Falcone, delegata per conto del dipartimento e del direttore all’indagine sociale sull’impatto della vicenda di Steccato di Cutro, hanno fatto sentire le loro voci significative e toccanti Valentina Castelli (psicologa), Concetta Federico (assistente sociale), Gaetano Rossi (volontario della Protezione civile). Sono soltanto alcuni degli operatori ascoltati dalla docente delegata dal Dispes, che il prossimo 26 ottobre presenterà il suo report su quella che ha definito «un’esperienza ancora vivida nell’universo emotivo e nelle pratiche professionali degli operatori che hanno lavorato nei servizi, per chi ce l’ha fatta e per chi non ce l’ha fatta».

LA STRAGE DI CUTRO E LA PSICOLOGA

«Non è un tema facile, è come riaprire una ferita – ha detto la psicologa Castelli non senza commozione – Sono psicologa di orientamento transculturale, avevo deciso di non occuparmi di questi fenomeni, perché si tratta di un ambito frustrante che richiederebbe interventi diversi. Ma quando il Comune cercava volontari subito dopo la tragedia ho deciso. Il mio compito era accompagnare i familiari delle vittime nel momento del riconoscimento». Il momento più straziante. «In una stanza, di fronte a una scrivania, la polizia scientifica con le foto delle vittime, dall’altro lato io con i parenti delle vittime. Il tempo era come sospeso tra la vita e la morte. L’attesa era il momento peggiore, ma si è creato un legame indissolubile tra gli operatori, sentivamo le carezze l’uno dell’altro. Le immagini erano di corpi martoriati, non mi hanno tutelato dieci anni di esperienza, eravamo tutti consapevoli di trovarci di fronte a qualcosa di più grande di noi, non c’erano confini tra ruoli, assistenti sociali alte un metro e 20 sostenevano poliziotti alti due metri che piangevano. Eravamo lì per sostenere persone estranee e ci sostenevamo l’un l’altro». Ma qualcosa si è costruito. «È stato faticoso catapultarsi nella vita dell’altro. Ma in questo annullamento totale delle funzioni si è creato un laboratorio di umanità in cui abbiamo sperimentato cosa volesse dire essere uguali, dunque umani».

L’ASSISTENTE SOCIALE

«Di storie di migranti nel corso della mia attività professionale ne ho ascoltate tante, mi è capitato di piangere a volte, ma quando qualcuno ti dice che ha visto i suoi cari morire in mare il mio essere professionale è venuto meno – ha spiegato Concetta Federico, operatrice dell’Ambito territoriale sociale di Crotone – Negli uffici regnava un’incredulità collettiva, le immagini a cui avevamo assistito erano troppo forti. Nella mia vita tutte quelle bare insieme non le avevo mai viste. Il PalaMilone era stato allestito come un obitorio. Una donna che mi mostrò la foto con i suoi tre figli splendidi si prestava allo strazio del riconoscimento, pensai che sarebbe stato meglio per lei sapere che i corpi erano lì». L’aiuto ai familiari delle vittime, ma anche il lavoro più burocratico. «Di fronte al dramma generale la politica si occupava della responsabilità di quello che era successo e noi assistenti sociali venivamo utilizzati per sbrigare le pratiche perché i parenti delle vittime chiedevano il rimpatrio delle salme».

Crotone non è rimasta indifferente. «La società civile ha risposto, tanta gente si mobilitava per dare dignità a quei corpi unendosi davanti al PalaMilone in una preghiera mesta e rispettosa». Infine, una riflessione. «Non è colpa di nessuno se i migranti sono nati in un’altra parte del mondo e se noi siamo privilegiati in un sistema senza cuore».

LA STRAGE DI CUTRO E IL VOLONTARIO

La testimonianza all’Unical dell’operatore della Prociv Gaetano Rossi chiama in causa anche i ritardi nei soccorsi per le vittime della strage di Cutro, un aspetto su cui dovrà far luce la Procura di Crotone che ancora indaga sulle falle nella catena di comando. E non hanno certo responsabilità i volontari, che hanno fatto quello che hanno potuto, forse anche di più. «Il 26 febbraio, alle 8 meno 10, chiama il responsabile regionale, mi dice che c’era qualche morto. Alle 9 eravamo sulla spiaggia». Alle 9, già. Ma il naufragio si era materializzato cinque ore prima, mentre le inaffondabili motovedette della guardia costiera rimanevano ormeggiate al porto di Crotone. «Vedevamo sacchi, tanti sacchi con dentro persone. La prima cosa che abbiamo fatto è stata aiutare i dottori che erano stanchi di trasportare tutti quei corpi. Siamo intervenuti su alluvioni, incendi, terremoti, ma questa tragedia ha avuto un impatto più forte. Eravamo in prima linea, i morti erano giovani, il più grande aveva 40 anni. Addosso avevano tre paia di calzini, due tute, come avrebbero potuto nuotare a 90 metri dalla riva, dove il mare è più profondo? I poteri forti non possono giocare sulla vita delle persone».

Tutti si davano da fare, anche gli anziani del luogo. «Questa emergenza è stata molto più lunga delle altre. Anche le vecchiette passeggiavano sulla spiaggia per vedere se riemergevano dei corpi. Una donna a un certo punto ci chiama segnalando un calzare della Protezione civile, ma era un bambino». Rossi ancora si dispera quando pensa a quel corpicino che ha stretto tra le braccia. «Un padre di famiglia cerca di non guardare, ma nota che quel bimbo ha lo stesso peso di suo figlio. Noi pensiamo a playstation e telefonini, questi sono morti per cercare una vita migliore».

LA STRAGE DI CUTRO E LA RIFLESSIONE

«Fa uno strano tepore sentirsi umani». È toccato al professore Parini spiegare la genesi di un percorso e iniziare a tirare le fila di un discorso che proseguirà nei prossimi giorni con una pluralità di voci esperte. «Questo è l’evento più importante dell’anno per il Dispes, un dipartimento capace di guardare alla complessità sociale. Lo scorso anno ci siamo occupati del conflitto russo-ucraino. Quest’anno qui all’Unical ci occupiamo di come “riemergere da Cutro” dopo la strage. Una tragedia anche istituzionale perché non abbiamo saputo accogliere. Ma qui si è celebrata l’umanità mettendo a disposizione amore, competenza, professionalità. Con un gruppo di docenti siamo andati lì, quando è successo, e non sapevamo cosa fare, non sapevamo neanche dove fosse Steccato, ma volevamo esserci. Quella tragedia reclamava la tridimensionalità che fa sentire il calore. Non era la prima, e non sarà l’ultima, ma a tante altre tragedie abbiamo assistito dalla piattezza degli schermi. Poi è accaduta una piccola magia. Siamo andati al PalaMilone. Luogo di mestizia ma anche di lotta. Ex studentesse e studenti di un tempo erano diventati professionisti dell’accoglienza. Qualcuno si è stretto in un abbraccio liberatorio e in un pianto. Abbiamo continuato ad andare lì nei giorni successivi e abbiamo imparato che questa regione ha bisogno di professionalità animata da valori. E l’accoglienza è il primo valore dell’umanità, perché abbracciamo chi viene in una terra che non è nostra ma costruiamo insieme. Cutro è un pretesto che ci ha svegliati. Quella sabbia su cui si sono depositati cadaveri è la sabbia dove giochiamo d’estate e d’inverno. Cutro non è un fatto isolato. Ma un tassello di un enorme mosaico che ci lega al contesto dei flussi di un’umanità che si muove, si sposta da un luogo all’altro, e lo fa da 30mila anni. La storia dell’umanità è storia di movimenti, ma recentemente sono stati elevati muri sempre più alti per volontà di arroccamento». Una soluzione Parini ce l’ha. E attinge alla cronaca recente. «Il modello di Mimmo Lucano è stato assolto. Mette insieme le esigenze di chi scappa da un suolo più leggero dell’acqua e quelle dei nostri paesi che si spopolano per creare microimprenditoria».

I GIURISTI

Un’occasione di riflessione anche per la costituzionalista Donatella Loprieno e l’esperto di diritto internazionale Claudio Di Maio. Loprieno punta il dito sulla «Distanza delle normative sull’immigrazione e delle convenzioni internazionali da ciò che accade. Isola Capo Rizzuto, per esempio, non dovrebbe accogliere minori, ma lo fa, e non si sa neanche che etichetta giuridica dare a quel centro». Il riferimento è al Cara S. Anna, tra le strutture per migranti più grandi d’Europa, a due passi da dove è avvenuta la strage di Cutro, dove il Consiglio dei ministri in seduta itinerante qualche giorno dopo la tragedia ha varato un decreto che la costituzionalista all’Unical definisce “un’aberrazione”. E ancora: «Il diritto internazionale è monco, è un infingimento perché riconosce a tutti il diritto di partire ma non impone agli Stati di accogliere. Per il diritto internazionale è sempre tempo di partire ma non sempre tempo di arrivare». Di Maio si è soffermato sull’Europa vista come “fortezza”, sulle politiche migratorie «incentrate sulla sicurezza e quindi sulla difesa dei confini». Mentre per quanto concerne la cooperazione, «l’Europa è di supporto agli Stati membri che restano i signori dei Trattati». Tanti altri gli spunti di riflessione emersi dalla giornata di ieri, mentre, sullo sfondo, aleggiava l’immagine terrificante evocata dal volontario in divisa. E in lacrime.

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