Gianni Di Marzio, allenatore negli anni Ottanta e nonno in tempi recenti
3 minuti per la letturaCOSENZA – Per tanti è come se fosse rimasto ancora lì: abbassato sulle ginocchia, davanti alla panchina del Cosenza, in giacca e cravatta, a sbraitare contro i suoi giocatori. Quante urla lanciate da quella posizione innaturale verso un suo difensore in ritardo o per una posizione sbagliata di un centrocampista.
E’ l’immagine iconica di Gianni Di Marzio. Allenatore urlante piegato a metà alla guida di una squadra che vinceva partite e campionati. E come salivano quelle urla: investivano il destinatario e lo superavano arrivando oltre, raggiungendo le orecchie e, in qualche maniera, anche i cuori dei tifosi.
Perchè quell’immagine dell’allenatore dalla voce sferzante, ai limiti dell’isteria, esisteva, ed esiste ancora, e piace parecchio a molti. Come se l’idea di avere al timone della propria squadra un personaggio che dia la sensazione di usare poca carota e tantissimo bastone sia in qualche maniera garanzia di impegno, di cuore, di sudore e, possibilmente, di vittoria.
Fatto sta che Di Marzio era così. Se fosse stato in attività oggi lo si sarebbe definito passionale e motivatore. Ma la sua era un’altra epoca e diverso era pure il calcio, fatto di marcature a uomo ferree e di tanti uno a zero e palla in tribuna. Tanta serie B, tantissima serie C nei campi dove fiorivano le leggende di partite vinte prima ancora di scendere in campo, tra occhiatacce e bullismo fra spogliatoi e corridoi, e dove la grinta, il fiato e il cuore erano ben più importanti della tecnica. In contesti così, l’allenatore Di Marzio si esaltava. Perchè era uno di quegli allenatori più incisivi con le parole, impastate di napoletano verace, che con la lavagna, uno capace di cementare gruppi attorno a un’idea di vittoria, che chiedeva sacrificio ai giocatori e alzava la tensione coi giornalisti per “una partita che dobbiamo andare a giocare con l’elmetto”. Stratega della comunicazione, frase che negli anni Ottanta non esisteva ma lui era anche questo.
Non gli mancava di certo il fiuto per il talento: il caso più eclatante era quello di Maradona. Si vantava di averlo segnalato lui per primo al Napoli. Di certo sapeva riconoscere perfettamente il potenziale di ragazzini acerbi o di giocatori reduci da annate storte e riusciva a farne calciatori. Non è un caso che i giocatori del suo Cosenza vincente proprio con lui vissero le loro annate migliori (Padovano unica eccezione, prima dei trionfi con la Juventus).
Renzo Castagnini e Ciccio Marino i suoi allievi migliori e custodi di aneddotica ricca e divertente. Entrambi passati dal campo alla dirigenza, appresero i rudimenti del nuovo mestiere proprio partendo dai consigli e dalla personalità dirompente del vecchio maestro, che intanto aveva lasciato la panchina per sedersi dietro una scrivania.
Negli ultimi tempi lo si vedeva ospite in tv oppure, per gli amanti dei social, il figlio Gianluca ne dava notizia della sua nuova vita, quella di nonno innamorato dei nipotini Gaia e Giovanni. Perchè al sud il nome del nonno passa ancora al nipote e, c’è da starne sicuri, quando succede dalle urla si passa a parlare a bassa voce, dimenticando l’elmetto in soffitta insieme ai ricordi di quando, su un campo di erba e polvere, un pareggio fuori casa aveva lo stesso epico valore di una battaglia vinta contro moltitudini di nemici.
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