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La polizia arriva sul luogo dell'omicidio di Antonio Taranto il 29 marzo 2015

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L’OMICIDIO di Antonio Taranto è da ieri ufficialmente in cerca d’autore. Domenico Mignolo, infatti, è stato assolto in Appello dall’accusa di essere l’uomo che il 29 marzo del 2015 esplode il colpo di pistola che centra alla schiena lo sfortunato ventisettenne di via Popilia.

Cinquanta minuti di camera di consiglio sono stati sufficienti per chiudere un tormentone giudiziario lungo quasi sette anni. Sedici, invece, erano gli anni di carcere richiesti  per Mignolo dalla Procura generale. Si trattava di un Appello bis dopo la ripetizione disposta dalla Cassazione che aveva messo in discussione la condanna inflitta all’imputato sia in primo che in secondo grado. In entrambi i casi, gli anni di carcere caricati sul suo groppone erano stati diciotto. L’annullamento dei precedenti verdetti si doveva ai bossoli rinvenuti sull’asfalto di piazza Lento, la scena del crimine, un dettaglio sui quali due Tribunali avevano sorvolato, sposando la tesi del sicario che spara dal balcone, ma senza giustificare la presenza all’esterno di quei reperti che sembrano rimandare a una dinamica differente.

La questione, sollevata dagli avvocati difensori Filippo Cinnante e Andrea Sarro era stata accolta dagli ermellini, comportando così la celebrazione di un nuovo processo culminato ieri in un verdetto d’assoluzione. Oltre ai dubbi relativi alla dinamica, determinanti sono risultate anche le contraddizioni emerse nei racconti dei collaboratori di giustizia. I giudici hanno disposto la trasmissione in Procura degli atti che riguardano un altro potenziale sospettato e, a tal proposito, bisognerà capire se la pubblica accusa intende seguire nuove piste investigative o andare in Cassazione per tentare di ribaltare la sentenza. Nel processo era imputato anche Leonardo Bevilacqua con l’accusa di favoreggiamento, ma anche nel suo caso l’epilogo è stato nel segno della non colpevolezza.  

L’ipotesi degli inquirenti, leit motiv dell’inchiesta,  è che quel delitto sia l’epilogo tragico di una resa dei conti tra ex amici, in quei giorni divisi da risentimenti feroci. Il sospetto, peraltro, è che l’allora ventottenne Taranto non fosse neanche il vero bersaglio, ma che nel mirino vi fosse proprio  Bevilacqua. Tutto sarebbe maturato nel seno del clan degli zingari, consorteria attorno alla quale ruota buona parte dei protagonisti di questa vicenda. A quei tempi, infatti, il gruppo era sull’orlo di una scissione poi scongiurata, ma proprio quel contesto turbolento avrebbe fatto da sfondo ai tragici fatti del 29 marzo. Non a caso, quella notte i rancori avrebbero superato il punto di non ritorno quando all’interno di una discoteca di Rende, Mignolo si imbatte in Bevilacqua e i suoi amici. Tra questi, c’è anche Taranto. Mignolo e Bevilacqua litigano, ma poi le due fazioni lasciano il locale e si danno appuntamento in via Popilia, nella piazzetta dove, l’una di fronte all’altra, sorgono le palazzine in cui vivono Domenico e Leonardo.

Qui finisce la cronaca e cominciano le ipotesi investigative: Mignolo è già in casa quando la comitiva a lui avversa si dispone sotto l’edificio. Domenico si affaccia dal balcone e comincia a sparare. Udito il primo colpo, Taranto fugge verso il palazzo di Leonardo, nella speranza di trovarvi riparo, ma un altro proiettile lo centra alla schiena. Riesce a entrare nel portone, ma poi stramazza al suolo. I medici, giunti sul posto, tentano di salvarlo trasportandolo in ospedale dove purtroppo arriverà già privo di vita.

Chi lo ha ucciso? Sette anni dopo, è una domanda ancora in attesa di risposte plausibili. Nella vicenda giudiziaria  familiari di Taranto sono rappresentati dagli avvocati Maria Rosa Bugliari, Angela D’Elia e Francesco Tomeo. 

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