Il tribunale di Cosenza
3 minuti per la letturaCOSENZA – Un avvocato donna e un carabiniere hanno seminato il panico nel tribunale di Cosenza per il semplice fatto di provenire entrambi da Milano. L’angoscia da coronavirus è dilagata ieri, in due aule distinte e quasi in simultanea, mentre i presunti untori erano impegnati una della difesa di un cliente e l’altro con compiti da testimone. In ambedue i casi, la reazione dei presenti ha segnato ufficialmente il ritorno in scena dell’uomo ancestrale, almeno nelle sue caratteristiche più deteriori. La donna, con la quale fino a pochi minuti prima più d’uno s’era fermato a chiacchierare, attira su di sé i sospetti in virtù del proprio accento.
“Sì, sono di Milano centro” spiega a domanda-risposta, aggiungendo poi di non essere stata sottoposta a controlli nell’aeroporto di Malpensa e neanche in quello lametino. Apriti cielo. I suoi colleghi le fanno il vuoto intorno, alcuni in modo anche scomposto. In molti abbandonano l’aula numero 7, altri addirittura evacuano l’edificio, ma la più scatenata di tutti si rivela il pubblico ministero d’udienza. Non vuole saperne di mettere piede in aula e neanche l’arrivo del giudice la induce a più miti consigli. Chiede che la milanese venga allontanata dal palazzo di giustizia, ma la diretta interessata non ci sta: “Non ho ricevuto istruzioni in tal senso, altrimenti non sarei partita affatto”.
La rappresentante della pubblica accusa – un viceprocuratore onorario – però è irremovibile e decide di rivolgersi alle guardie giurate. Quest’ultime provano a convincere la forestiera che, forse, è meglio cambiare aria. Una circolare diramata il giorno prima dal presidente del tribunale cosentino giustifica le assenze di avvocati, imputati e testimoni provenienti dalle zone d’Italia a rischio; i vigilantes fanno leva su quel documento, ma senza grande costrutto.
La situazione per il legale in trasferta si fa sempre più umiliante, anche perché la pm, nel frattempo, medita di chiamare persino i carabinieri. In sua difesa interviene allora il presidente del suo ordine professionale, Vittorio Gallucci, che tenta di far ragionare il pubblico ministero, ma l’empasse è superata solo quando alla riprovazione di Gallucci si aggiunge quella del presidente dell’ufficio gip-gup, Salvatore Carpino. La pm prende posto in aula e, a quel punto, il giudice, la dottoressa Calà, decide di dare precedenza alla causa incriminata che, a scanso di equivoci, si protrae solo per pochi minuti. Tutto è compiuto, anzi no: il peggio deve ancora venire.
A pochi metri di distanza, infatti, nell’aula numero 18 anche un militare dell’Arma si accinge, suo malgrado, a spopolare. Pure nel suo caso, una volta accertata la sua provenienza meneghina, il panico comincia a serpeggiargli tutto intorno: chi fugge da una parte, chi dall’altra, mentre i più ragionevoli si limitano a proteggere le vie respiratorie con le sciarpe che portano al collo.
Che fare? L’annoso dilemma si trasferisce direttamente da Lenin alla dottoressa Tartaro, il giudice, che si ritrova alle prese anche lei con l’ostilità del pubblico ministero. Il giudice, però, è irremovibile: “Non faccio discriminazioni”. Morale della favola: Il Carabiniere viene fatto accomodare in una sala attigua per un’oretta, in attesa di essere chiamato a testimoniare e poi anche lui lascia il tribunale. Sperando di non farvi più ritorno.
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