Cosenza vista dall'elicottero dei carabinieri il giorno del blitz
8 minuti per la letturaCOSENZA – C’è una folta schiera di collaboratori di giustizia dietro i racconti selezionati dagli inquirenti per contribuire a delineare il quadro di accusa contro presunti capi e affiliati alla “confederazione” di cosche che la Dda catanzarese ritiene di avere individuato con la maxi inchiesta che ha portato nei giorni, con l’operazione “Reset”, a 190 arresti. Dichiarazioni di pentiti risalenti ad anni diversi, alcune delle quali già valutate in processi arrivati a sentenza definitiva, alcune altre – soprattutto le più recenti – oggetto di attività di riscontro nella stessa inchiesta “Reset”.
Trattandosi di collaboratori di giustizia che hanno rivestito ruoli attivi nelle diverse componenti della complessa scacchiera criminale cosentina, il loro apporto viene considerato di grande rilievo proprio per la particolarità della presenza di ‘ndrangheta a Cosenza e hinterland. Senza contare, sottolineano gli inquirenti nell’impianto accusatorio in base al quale hanno chiesto e ottenuto l’emissione delle misure cautelari, che molti dei pentiti si sono autoaccusati di reati anche pesanti e le loro dichiarazioni in gran parte si riferiscono a fatti di conoscenza diretta, quindi non per averli appresi da terze persone.
I principali collaboratori di giustizia, ritenuti di primo piano proprio perché prima della scelta di collaborare con la giustizia erano inseriti a pieno titolo nei diversi gruppi criminali oggetto dell’inchiesta, sono: Abbruzzese Celestino, Bruzzese Franco, Calabrese Violetta Roberto, De Rose Vincenzo, Foggetti Adolfo, Foggetti Ernesto, Impieri Luciano, Lamanna Daniele, Montemurro Giuseppe, Novello Alberto, Palmieri Anna, Pellicori Luca, Pulicanò Mattia, Zaffonte Giuseppe, Presta Roberto. Molti di loro, ad avviso dei magistrati antimafia di Catanzaro guidati dal procuratore Nicola Gratteri, hanno offerto con le loro dichiarazioni un quadro molto dettagliato e univoco degli eventi criminali dell’ultimo decennio, con riferimento, principalmente, al gruppo “confederato” con una cassa comune (la “bacinella” in cui confluiscono i proventi delle attività criminali), decisioni condivise ma anche a fibrillazioni interne alla “confederazione”.
Nelle carte dell’inchiesta viene tracciato un profilo dei citati collaboratori di giustizia in relazione alle rispettive storie e agli elementi principali delle rispettive dichiarazioni valorizzati nella ricostruzione del particolare “sistema” che avrebbe rappresentato la peculiare presenza di ‘ndrangheta nel capoluogo brutio.
CELESTINO ABBRUZZESE
Detto “Micetto”, appartiene alla famiglia “Banana”, figlio del capostipite Fioravante Abbruzzese, e insieme a quattro dei suoi fratelli rappresenta un gruppo autonomo nel clan degli zingari a Cosenza, gruppo dedito principalmente alla gestione dello spaccio di eroina. Secondo gli inquirenti, le sue dichiarazioni (in alcuni casi riscontrate da quelle di sua moglie, Anna Palmieri, divenuta anche lei collaboratrice di giustizia) hanno consentito di portare alla luce diversi reati (anche delitti) che sarebbero ascrivibili alla sua famiglia, con contributi informativi particolareggiati per quanto riguarda traffici di droga.
L’inizio della collaborazione di giustizia di “Micetto” risale alla fine del 2018 quando era a capo di un gruppo di spaccio nel centro storico di Cosenza, colpito dall’operazione “Job center”. Proprio il pentimento di Abbruzzese, sostengono i pm antimafia, rappresenta un punto di svolta nella comprensione investigativa del “sistema Cosenza” nella sua conformazione più attuale.
Abbruzzese ha parlato a tutto tondo, dai canali di approvvigionamento della droga (prima Rosarno, poi Cassano) alle dinamiche interne e anche alle tensioni che hanno attraversato la “confederazione” fino a minare l’unità del gruppo degli zingari, che risultava composto da tre derivazioni, spesso sconquassate dall’arresto dei rispettivi capi (per diversi fatti).
È dunque la gestione dello spaccio della sostanza stupefacente il tema nel quale le rivelazioni di “Micetto” entrato nel dettaglio, compreso l’ingresso sulla piazza di altri gruppi di spaccio che sarebbero dotati di organizzazione gerarchica e autonomia.
L’apparente frammentazione dei gruppi dediti allo spaccio di droga, secondo Abbruzzese, si mantiene in piedi proprio per l’esistenza del “Sistema”, una sorta di carta costituzionale del crimine cosentino (che disciplina vari aspetti dell’attività con la previsione di sanzioni per chi non si adegua) che ne avrebbe evitato l’implosione.
Al riguardo, la Dda cita espressamente un brano delle dichiarazioni di Celestino Abbruzzese (rese nel maggio del 2019): “(…) per l’eroina abbiamo il monopolio noi Zingari della famiglia Banana (…) per la cocaina funziona che quando un carico arriva a qualcuno che fa parte del Sistema, composto sia da Zingari che da italiani, chi ce l’ha la fornisce anche agli altri al prezzo stabilito sulla base del prezzo di acquisto (a volte a 35, a volte a 40 euro al grammo) e, in base al prezzo di acquisto viene immessa sul mercato (…) per Sistema, dunque, intendo un accordo tra organizzazioni, come se fosse un’unica associazione dedita al narcotraffico, per evitare di entrare in lite tra organizzazioni diverse, per cui quando qualcuno prende la sostanza da altri vuol dire che c’è quello che noi definiamo sottobanco, tanto è vero che a volte, nei periodi in cui si spacciava di meno, cercavamo le persone che facevano il sottobanco; queste, una volta individuate, venivano punite, picchiati e a loro venivano richieste delle somme di danaro per risarcire il Sistema; (…) questi proventi dal sottobanco confluivano nella bacinella comune e venivano suddivisi tra i gruppi degli Zingari e quelli degli italiani. (…) ogni spacciatore che ‘lavora’ a Cosenza è vincolato con uno dei gruppi che fa parte del Sistema; in ogni periodo, si sa sempre chi spaccia e per quale gruppo lo fa, in modo che non vi sia spazio per lo spaccio a soggetti esterni al Sistema; quando a qualche gruppo manca la sostanza stupefacente, sa di poter contare sugli altri gruppi, gli Zingari sugli italiani e viceversa, all’interno delle organizzazioni degli Zingari e a quelle degli italiani ci sono diversi sottogruppi, ma tutti partecipano di quella che può essere considerata una sola grande organizzazione secondo l’accordo che prevede la creazione del Sistema (…)”.
Gli inquirenti tengono in grande considerazione le dichiarazioni di Abbruzzese che delineano un quadro caratterizzato da un ampio margine di libertà nell’avviare attività di spaccio, a patto che le forniture siano riservate al “Sistema” e in linea con il codice di comportamento, per così dire.
Nella ricostruzione investigativa sarebbe stato proprio un episodio di “sottobanco” a innescare nel 2011 le tensioni tra la famiglia “Banana” e “Strusciatappine”, culminata nel tentato omicidio del fratello di quest’ultimo, evento che farà finire il clan degli zingari sull’orlo di pesanti divisioni e addirittura di una faida.
Ad avviso dei magistrati della Dda di Catanzaro, Celestino Abbruzzese è un collaboratore di giustizia credibile. Le sue dichiarazioni sono state utilizzate per la prima volta in un procedimento penale (il primo grado è in corso). Nell’ambito di questo procedimento, rilevano i magistrati della pubblica accusa, i giudici del Riesame (nella fase cautelare) si sono pronunciati per l’attendibilità delle dichiarazioni di Abbruzzese, sottolineando, tra l’altro, che pur essendo molto recenti, le collaborazioni di “Micetto” e della moglie, Anna Palmieri, sono “… oltremodo qualificate, avendo gli stessi fornito dati inediti a carico della famiglia Abbruzzese, in un momento in cui il quadro probatorio era scarno e lacunoso, con conseguente manifestazione di assoluta spontaneità del narrato (…).
FRANCO BRUZZESE
Nato a Cosenza l’8 febbraio 1967, è il primo collaboratore di giustizia della cosca degli zingari cosentini dopo Franco Bevilacqua (detto “Franchino i Mafalda”) il boss che decise di passare dall’altra parte della barricata nei primi anni Duemila.
La collaborazione di Franco Bruzzese – che fu capo della componente nomade del gruppo Rango-Zingari – arriva circa 15 anni dopo e consente, rilevano gli inquirenti, di attualizzare le conoscenze di un gruppo criminale più impermeabile alle defezioni. Fratello di Giovanni Abbruzzese, considerato il capo storico degli zingari cosentini detenuto da molti anni, il collaboratore di giustizia è ricordato dai pm come uno che partecipò a diverse rapine a furgoni portavalori, non solo in Calabria, anche grazie alla sua abilità nell’uso dei fucili mitragliatori kalashnikov.
Rimane per molto tempo lontano da fatti di sangue, fino al suo coinvolgimento, tra gli ispiratori, nell’omicidio di Luca Bruni, una decina di anni fa. Di altri delitti ha però parlato, per la conoscenza legata al suo ruolo apicale del gruppo. Come per il duplice delitto Chiodo-Tucci (risale al 2000, a Cosenza, in via Popilia), vicenda sulla quale Bruzzese ha riferito circostanze e particolari che hanno riscontrato le dichiarazioni rese nel 2001 da Franco Bevilacqua.
Per quel duplice delitto nel luglio di quest’anno sono state confermate in appello cinque condanne (compresi due ergastoli), alcune delle quali ridotte nell’entità rispetto al primo grado. Bruzzese era stato condannato per quel delitto a 11 anni in un precedente processo. Anche Bruzzese, come altri collaboratori, ha contribuito a ricostruire l’assetto interno del suo gruppo e i rapporti con gli altri clan cosentini, soffermandosi anche sull’accordo che portò alla costituzione di un unico gruppo mafioso (la “confederazione”), con dettagliate rivelazioni sulla “bacinella” e sulla ripartizione dei proventi delle attività tra i gruppi.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA