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La notizia dell’approvazione da parte del Vaticano del processo di beatificazione per Don Carlo De Cardona è stata riferita da mons. Francesco Candia, segretario del Vescovo della diocesi di Cassano, al prof. Biagio Giuseppe Faillace, responsabile del comitato Pro-Beatificazione del poliedrico sacerdote moranese, ed è stata accolta con viva soddisfazione da quanti, sin dal settembre 2008, in occasione della scopertura del busto di don Carlo che troneggia all’ingresso dell’abitato di Morano, cui fece seguito il convegno sulla figura del prete vissuto nel secolo scorso, si sono prodifgati al fine di avviare l’iter per la canonizzazione. In quella circostanza, al cospetto dei tanti studiosi e fedeli intervenuti nell’auditorium comunale, il Vescovo assicurò il suo impegno nell’approfondire la vicenda umana e religiosa di don Carlo. L’Ok vaticano giunge dopo quello della Conferenza Episcopale Calabra, che nei mesi scorsi a aveva accolto positivamente la proposta proveniente dall’episcopio cassanese dando il suo placet al prosieguo del percorso che avrà il suo eventuale epilogo nella dichiarazione ultima dell’eroicità delle virtù.
LA FIGURA DI CARLO DE CARDONA
Il sacerdote calabrese nasce il 4 maggio 1871 a Morano. Dopo la formazione di base consegue la maturità classica, quindi apprende all’Università Gregoriana le lezioni di padre Matteo Liberatore. Imbastisce rapporti con don Romolo Murri e don Luigi Sturzo e si ciba delle nuove idee che pian piano si diffondono negli ambienti ecclesiastici verso la fine del XIX sec. Il 27 settembre 1895 nella cattedrale di Cassano Jonio (Cs) il vescovo di quella diocesi, Mons. Di Milia, corona il sogno del promettente studente moranese ordinandolo sacerdote. Nello stesso anno don Carlo accetta l’invito del metropolita di Cosenza Mons. Camillo Sorgente e si trasferisce nel capoluogo di provincia, dove assume l’incarico di segretario personale del Prelato. Nella città dei Bruzi inizia il suo faticoso incedere. Malgrado i «non expedit» vaticani, protetto e incoraggiato dal suo mentore, l’arcivescovo Sorgente, s’impegna in politica sino al 1934, anno in cui il governo fascista, aborrendo le sue idee, con il favoreggiamento di alcuni settori del clero cosentino lo invia al confino. Carluccio, come lo chiamavano affettuosamente i suoi cari, accetta le sofferenze provenienti talvolta addirittura da sagrestie troppo retrive e, nonostante il suo carattere ardente, non accenna a gesti di ribellione. È ospitato a Todi dal fratello minore, Ulisse Paolo Alfonso il quale, dopo la laurea in medicina conseguita a Napoli, aveva fissato la sua residenza in Umbria. L’angosciante esilio, lontano da Cosenza, si protrae sino al dicembre del 1941, data in cui ritorna in città. Presto deve però constatare la sua impotenza nei confronti di un ambiente incancrenito dal clientelismo. Deluso e amareggiato entra in conflitto con gli esponenti della Democrazia Cristiana, il partito che riproponeva il nome del movimento cattolico dei primi del novecento ma che di fatto ne tradiva gli ideali e gli obiettivi, ed è costretto dai suoi avversari, forti ed agguerriti, ad allontanarsi definitivamente da Cosenza. Abbandonato da tutti, nel 1948 ritorna a Todi e vi rimane sino a che una grave forma di arteriosclerosi, causata verosimilmente dall’intima sofferenza per aver dovuto forzatamente abbandonare quanto costruito, lo obbliga a ritornare nella natia Morano dove muore povero nell’abitazione del fratello Nicola il 10 marzo 1958. Trasferitosi a Cosenza, in un periodo in cui le condizioni socioeconomiche del meridione d’Italia apparivano disastrose e la borghesia terriera e baronale facendo leva sull’ignoranza ghettizzava e sfruttava le classi operaie e contadine, si propose quale elemento di rottura in un mondo edulcorato e fittizio, del quale detestava il dispotico oscurantismo. La chiesa, dal canto suo, non osando per contingenze varie ribellarsi a tale increscioso scenario, ne diveniva frequentemente corriva. Mons. Sorgente, una delle poche e purtroppo isolate voci fuori dal coro, aveva intuito la necessità d’istruire ed organizzare i bassi ceti. E proprio questo desiderava quando il suo Segretario intraprese l’opera di elevazione culturale del proletariato. Don Carlo non cedette mai agli assalti degli avversari. Anzi. Li contrastò con fermezza. Per divulgare il modello di una società ispirata ai valori cristiani fondò il suo primo giornale, «La Voce Cattolica», cui seguì «Il Lavoro», che divenne, mutando il nome in «L’Unione Lavoro» l’organo ufficiale del Partito Popolare di Cosenza. Istituì la «Lega del Lavoro» e le «Cooperative bianche», organismi composti da operai che «amandosi in Cristo si univano per difendere insieme gli interessi morali ed economici del loro ceto». Lottò per il rinnovo dei patti agrari e fu eletto, lui, uomo in tonaca, consigliere comunale e provinciale. Fondò le Casse Rurali, organismi che accordavano l’accesso al credito alle sole classi deboli e precludevano ai potentati i Consigli d’amministrazione. Diede impulso a grandi iniziative di sviluppo in diverse microaree della provincia di Cosenza e fu con don Luigi Sturzo nel gruppo dirigente nazionale dell’Azione Cattolica italiana. Ma se l’intera opera del De Cardona sopravvisse per un certo periodo ad ogni genere di ostacolo, non riuscì parimenti a fronteggiare le prevaricazioni della dittatura fascista. Pur rimanendo nella sua proverbiale umiltà, ignorando ricchi e gentili, don Carlo aveva creato i presupposti per l’affrancamento autonomo degl’indigenti, fatto che mal si conciliava con l’idea dominante di corporativismo. Pian piano le Casse Rurali e tutta l’istituzione decardoniana – corresponsabile l’intrigo perpetrato di soggetti che dall’interno delle strutture caritatevoli brigavano contro il prete moranese – fu fatta fallire e il suo fondatore inviato inesorabilmente al domicilio coatto in Umbria. Il castello edificato da don Carlo andò gradualmente sgretolandosi, ma i principi ispiratori della sua azione restano impressi nella coscienza di quanti continuano a credere in Gesù Cristo, nel diritto, nella giustizia, nella libertà e nell’onestà come strumenti di equa e pacifica convivenza.
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