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Emma Leone

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Per decenni, senza quasi muoversi, Emma Leone è stata l’anima della “Progetto Sud” di Lamezia. Ammalata di distrofia come tre suoi fratelli, indossava una maschera per l’ossigeno. Ha organizzato le attività delle varie cooperative, le manifestazioni, le richieste e le proteste. Ha scritto un libro-diario, se n’è andata una settimana fa. Il Duomo era strapieno.


SAPEVA essere trascinatrice da un pc, organizzare gruppi e sit-in senza uscire, sapeva gestire l’archivio fotografico, impaginare e pubblicare una rivista grazie a un mouse speciale, era insostituibile nella Comunità, un pezzo di panorama e capitale umano: tutto questo è stata Emma Leone per la Progetto Sud di Lamezia, e quindi per un territorio vasto di solidarietà e lavoro, di welfare che sostituisce quello pubblico che non c’è. Leggere il suo libro-diario oggi significa fare i conti con la storia di quegli anni, quando da Brescia dissero a don Giacomo Panizza: «Devi andare in Calabria, ci sono paesi dove le famiglie nascondono gli handicappati perché si vergognano».

La Progetto Sud è stata raccontata cento volte in Italia e all’estero, in Calabria sempre troppo poco, ne sanno più in Svizzera che a Reggio. Emma la prende dall’inizio, con le prime riunioni che si svolgono a casa sua, le trasferte alla comunità di Capodarco nelle Marche. I genitori orgogliosi e attenti, loro sì, mai abbattuti nonostante la vita amara: sette figli, tre maschi ed Emma sono affetti da distrofia muscolare. Il tratto comune è la non-rassegnazione, l’esigenza di avere diritti che non esistono. Lei tiene un diario e a pagina 11 annota con soddisfazione: «Da quando è nata la Comunità, mia mamma ha cominciato ad uscire di casa».

Il libro si chiama “In compagnia di Maicol” ed è una galleria di incontri, di arrivi e piccole gioie. L’incontro è con gli altri fondatori, quando mancano i soldi, e bisogna votare anche per prendere un caffè. «Io non capivo cosa mi stesse accadendo. La mia vita in poco tempo si era capovolta: mi veniva chiesto di partecipare attivamente a costruire insieme ogni nostro progetto di vita, a esprimere il mio parere su ogni decisione o azione…»

L’arrivo è quello di Turuzzo, recuperato su una panchina della stazione di Nicastro: «Ora sta con noi». E ci resterà tutta la vita. E poi i minorenni portati fuori dal carcere, i primi progetti sperimentali. Non so se questo possa classificarsi come “porgere l’altra guancia”. Ma la mafia ha spesso perseguitato la Comunità, e la Comunità si è spesso fatta carico di ragazzi da salvare. Finendo per aprire il primo parco giochi di Lamezia in una zona ad alta densità ‘ndranghetista, teatro di due sparatorie.

La gioia è anche quella gita al mare con Nonna Concetta, anche lei in sedia a rotelle: non vedeva le onde da vent’anni.
E poi c’è l’amore. Beppe è un obiettore di coscienza, arriva da Bergamo e sempre conserverà l’accento lombardo, come del resto don Giacomo. Emma è quasi pudica nel racconto: quasi non si spiega che Beppe le abbia chiesto di andare in qualche zona povera del mondo. “Ci siamo già” sembra dirgli, e si lamenta anche: il capellone arrivato dal nord è troppo geloso.
Lei sta invece sperimentando la bellezza e la libertà della comunità, la sorellanza, le conquiste quotidiane. Lui si placa, ma gli ostacoli vengono dalla sua famiglia. Il padre non accetta una nuora disabile e per giunta calabrese, Emma sente che non avrà mai affetto da lui. Si sposano nell’81, il ricevimento è a Vibo. Il padre di Beppe ha il muso. Una ragazza, ospite della comunità con problemi di schizofrenia, tira un piatto in faccia a un’altra invitata. Gli incidenti di chi sta dentro la vita, “Progetto Sud” accoglie molte ragazze disperse e abbandonate, trovano una famiglia che non hanno mai avuto. Una ci mette cinque anni per affrancarsi dai parenti mafiosi: «Ora ha un marito e un figlio, e ogni tanto ci telefona, dice che ha nostalgia di noi».

Emma è sempre lì, in prima fila. Nella protesta pacifista contro gli F-16, contro i Cruise a Comiso, infatti ha voluto la bandiera della pace sulla copertina del libro. Nell’esame analitico della Riforma sanitaria, nelle vertenze con le sciagurate Asl locali, e quel presidente che dice: «Se non la smettete, vi sbatto in istituto».

Nei primi anni 2000 Emma comincia ad avere problemi respiratori, insonnia: i medici le consigliano un ventilatore polmonare. Lei lo battezza Maicol: è la sua maschera protettiva, la sua salvezza. Inizialmente una barriera con il mondo, poi diventa la sua faccia ufficiale, non le impedisce di sorridere, anche se le altera un po’ la voce. Deve essere sempre collegato all’elettricità, lei lo indossa anche il giorno delle nozze d’argento: «Una bellissima festa, peccato che si sia rotto proprio oggi!».

Dal 2007 Emma non esce più, perché non le va di dipendere troppo dagli altri, da una presa sul muro. Ma l’attività si fa perfino più febbrile. «Ormai non partecipo più agli eventi che organizzo». La sua storia mi ricorda quella di Rosanna Benzi, la ragazza genovese chiusa nel polmone d’acciaio che riusciva a parlare al mondo.

È un playmaker, un baricentro, una bandiera, un caporedattore. A proposito, tiene i rapporti con la stampa ma diffida dei giornalisti, da quando tutta la sua famiglia è stata sbattuta in prima pagina come caso disperato. Apre ai carabinieri che non sanno dove piazzare «un uomo senza fissa dimora». Quante volte hai bussato qui, caro Stato italiano? Apre le lettere anonime scritte con il normografo. Piange le morti, celebra le nascite. Si preoccupa di tutti, perfino del mal di schiena del marito. Celebra un audiolibro «come il più bello dei regali». Canta Venditti «com’è fantastica la vita» quando Maicol si affranca dal filo: hanno inventato le batterie, lei avrà più autonomia e potrà uscire qualche volta. Ogni giorno, una storia, una faccia.

Poi vince la malattia, Emma aveva 69 anni. Una settimana fa l’hanno salutata in centinaia al Duomo di Lamezia, in questi giorni ognuno ha pregato a modo suo. C’erano per esempio gli ex ragazzi della Comunità “Luna Rossa” che accoglie i minori stranieri non accompagnati, quasi tutti musulmani. Sono integrati e magari vivono lontani. Don Giacomo Panizza ha officiato la messa, ha detto che servivano almeno cento punti per descriverla. Lei ha voluto la bandiera della pace sulla bara, ora sarà da qualche parte sopra le nuvole, fra Gaza e l’Ucraina. Il marito Beppe racconta che si sentiva ormai come un palazzo che si sta sgretolando. Maria Pia Tucci ricorda gli ultimi difficili giorni, e di come Emma abbia fatto di tutto per partecipare alla presentazione del libro, sempre lucidissima. Ce l’ha fatta, e quanti altri regali ha lasciato.

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