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È UN impercettibile sussurro, pronto a ritornare ad essere una voce potente: una di quelle voci che ti ridanno fiducia, ti fanno riscoprire un orgoglio nei secoli dimenticato, messo da parte, sepolto. È la voce di Catanzaro, il suo dna. Il nostro dna. 

Voce sepolta, perché è proprio sotto il livello di calpestio delle strade, dei vicoli, delle piazze che si nasconde un patrimonio di storia e di storie che sarebbe stato bello sbattere in faccia a chi, qualche tempo fa, è addirittura venuto dal Regno Unito ad apostrofare Catanzaro come «dull and ugly», «noiosa e brutta». Perché quel patrimonio di storia e di storie sepolto, prende il nome di Identità. Quella che qualche tempo fa aveva iniziato a tirare fuori il capino grazie all’esplorazione del gruppo speleologico del Cai (Club alpino italiano) con Pino Greco. Un discorso ripreso – arricchito di suggestive ipotesi di studio – dal documentario di Giuseppe Rachetta, “Segreti passaggi”, sulla Catanzaro sotterranea, fatta di una rete ipogea di cunicoli, camminamenti, ambienti voltati e fiumi sotterranei. Come l’Abisso, il corso d’acqua che dal colle Vescovato, si incanala sotto la valle del Tubolo, scorrendo a circa 13 metri di profondità sotto la chiesa del Carmine, nel rione Grecìa, sul colle San Trifone. Lì il primo insediamento che ha dato vita alla città. Lì la prima esigenza di cavare la roccia, non solo per trarne materiale da costruzione, ma anche per preparare una via di fuga per disperdersi nei boschi sottostanti, in caso di minacce provenienti dalla costa. E lì a tutt’oggi esistono accessi ad ambienti ipogei ostruiti nel corso dei secoli, che passano proprio sotto alcune abitazioni. 

Un dedalo di cunicoli che potrebbe essere stato utilizzato – secondo il sistema dei “qanat” palermitani – per intercettare l’acqua che scorreva nel sottosuolo e attraverso un sistema di pendenze convogliarla verso la superficie, ad irrigare i rigogliosi giardini che sorgevano nel perimetro della città. Poi l’acqua inizierà a scarseggiare. Un intendente della provincia durante il decennio francese paragonerà questa penuria d’acqua al supplizio di Tantalo: «Catanzaro, pur affogando nell’acqua, soffre la sete». Cosa è diventata quella rete ipogea scavata dall’uomo? Forse una rete viaria? Dalla parte sud della città, le memorie raccontano, infatti, di accessi da Stratò e dalla Grecìa, accessi con gallerie che venivano percorse dai ragazzi di Catanzaro nei loro giochi, e che punterebbero verso nord, verso la valle del Musofalo, dove sono le Grotte di Diana, un toponimo che rimanda ad una divinità cui era demandata la custodia delle fonti e delle sorgenti. E poco più su sorge il convento dei minori, oggi ex ospedale militare. Fonti “tràdite” riferirebbero di un passaggio nei pressi del pozzo, che avrebbe permesso di uscire dall’ex convento dei Minori. Ma qui siamo già oltre la Porta di Terra, qui è un’altra storia.

 Torniamo sul Triavonà, sul colle San Giovanni. Lì l’impianto di incastellamento prevede la presenza di ambienti ipogei: segrete, magazzini, ma soprattutto veri e propri camminamenti – riportati in parte alla luce – che dovevano non solo consentire alla signoria un collegamento agevole con l’altro momento del potere, quello religioso, ma anche permettere l’agevole spostamento di soldati in caso di attacco. O la fuga. 

Percorsi sotterranei, inoltre, sono presenti in diverse aree del centro storico. «La presenza dei tanti elementi sotterranei – osserva l’archeologo Francesco Cuteri, in una nota su “L’estrazione del calcare e il suo impiego nell’edilizia storica” – si spiega con la natura stessa della formazione rocciosa su cui sorge la città e ciò ha sempre favorito, probabilmente fin dalle origini, un’attività estrattiva di materiale da costruzione che si è interrotta solo in tempi molto recenti». Un’altra storia si apre, dunque, quella di una città-castrum che già Idrisi, geografo di Ruggero, nel 1154 definiva come “Fortezza d’efficiente costruzione”. E la storia successiva lo confermerà: cinque porte di accesso principali, una cinta muraria che segnava i confini della città, ma anche una rete di camminamenti sotterranei che avrebbero consentito il collegamento dei cinque accessi (lungo altrettante direttrici tendenti verso un centro situato nel sottosuolo della “Piazza”) permettendo – per la Porta Stratò, è testimoniato dal Gariano – «di cavar via soldati segretamente». Una tale rete sotterranea apparterrebbe ad una tecnica militare difensiva propria di diverse fasi della storia della città. Tecnica difensiva il cui apice sarà stato raggiunto in occasione dell’assedio francese del 1528. 

Ma la storia della rete ipogea di Catanzaro è legata anche alle sedi monastiche e conventuali sorte dopo l’età sveva: se può sembrare avventato azzardare un sistema di collegamento sotterraneo tra i monasteri entro le mura – a dispetto di quanto riferisca la tradizione – meno improbabile sarebbe quello tra sedi monastiche e chiese limitrofe. Uno dei cunicoli che compaiono nel documentario di Giuseppe Rachetta sembra seguire questa ipotesi: si tratta di un tunnel che dai locali caldaie del convitto Galuppi (sorto nel 1563 come collegio gesuita) si dirigerebbe verso la chiesa di San Nicola (nel 1265 San Nicola Sicillii), e la tradizione vuole che una diramazione correrebbe verso nord, verso Sant’Omobono. 

I cunicoli, passate le esigenze difensive, torneranno utili ancora come “segreti passaggi” in epoca risorgimentale, nel periodo delle società segrete. E chissà cosa si potrebbe trovare se venisse finanziata una campagna di speleologia urbana? Forse una considerevole parte di storia: “scritta”, e non solo dai picconi, sulle pareti di calcarenite. Una storia fatta di nomi, date, timori e atti di eroismo, ideali per i quali sacrificarsi, sia se si combatte contro i francesi che contro i Borboni. Tasselli di identità che è giunto il momento di smettere di “calpestare”. 

 

 

 

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