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Nicola Miriello

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Intervista a Nicola Miriello protagonista di una situazione kafkiana: messo in pensione perché non è Questore e nominato Questore quando ormai è fuori servizio da un anno.


Il dottor Nicola Miriello è stato un ottimo poliziotto. Ha lavorato nell’Amministrazione della Pubblica Sicurezza dal 2 novembre 1987 al 30 novembre 2022. È stato messo in quiescenza dal dicembre 2022 avendo compiuto i 60 anni il 3 novembre dello stesso anno, quando era arrivato al grado di Primo dirigente. Se Nicola Miriello fosse stato nominato Questore in tempo, cioè prima di andare in pensione, avrebbe potuto (e voluto) continuare a lavorare fino ai 67 anni.

Il dottor Miriello sapeva che la nomina sarebbe dovuta arrivare prima del compimento dei 60 anni come succede a tutti i primi dirigenti destinati a proseguire la carriera. Più volte ha scritto ai Capi della Polizia che si sono succeduti, da Gabrielli a Giannini, all’attuale Pisani, al ministro Piantedosi, ai sottosegretari dell’interno Ferro e Molteni, senza ricevere risposta sul perché della mancata promozione a dirigente superiore.

Incredibilmente, la nomina a Questore è poi arrivata. Porta la data del settembre 2023 e gli è stata notificata qualche settimana fa. Una situazione kafkiana: ti hanno messo in pensione perché non eri Questore e ti mandano la nomina a Questore quando ormai sei fuori da un anno.

Nella sua lunga carriera, Miriello ne ha viste di tutti i colori: da Reggio Calabria, a Lamezia Terme negli anni caldi (due mesi dopo il terribile duplice delitto dei coniugi Aversa – Precenzano) quando le cosche lametine erano unite, poi alla questura di Catanzaro e a quella di Lecce. In questa intervista ci racconta la sua storia di “Questore non Questore”. Una storia che non può finire così.

Dall’1 dicembre 2022 in pensione, un anno e più senza la stessa vita fatta per 35 anni. Come ci si sente?

«Non è stato un periodo facile, soprattutto gli ultimi anni, diciamo dal 2015, segnati da vicende che mi hanno coinvolto, alcune positive altre negative. Mi riferisco anche al coinvolgimento in una vicenda penale dove non c’entravo assolutamente niente, probabilmente costruita ad hoc e finita come sappiamo tutti, con un’assoluzione completa, totale, senza nessun tipo di appello perché non c’era nessun elemento per andare a un processo e neanche per fare un’indagine. Poi mi hanno in qualche modo ricompensato con un incarico prestigioso, da luglio del 2016, che doveva portare a recuperare il tempo perso oltre ai successi e meriti di 35 anni al servizio dello Stato. Perché io mi ritengo un servitore dello Stato, che non è una brutta parola. Certo, mi sento solo e abbandonato e mi porto dentro tanta amarezza perché mi hanno impedito di completare un giusto percorso che doveva concludersi con la nomina a Questore».

Una promozione che alla fine è arrivata ma solo quando era già in pensione. Nicola Miriello: Dirigente superiore, quindi Questore, già da settembre 2023 ma notificata qualche settimana fa.

«Oltre al danno la beffa. Che cosa me ne faccio ora della nomina di questore che non mi porta nulla, nemmeno come compenso economico? Ho scritto ai capi della polizia, Giannini, Pisani, ai ministri dell’Interno Lamorgese e Piantedosi, ai sottosegretari all’interno, compresi Molteni e Wanda Ferro, non ho mai avuto risposta perché io volevo che qualcuno mi dicesse le motivazioni vere o non vere della mancata promozione. In 35 anni non avevo mai fatto un errore, avevo avuto sempre elogi e note di merito, ma sono rimasto al palo per quali oscuri misteri non lo so».

Se Nicola Miriello avesse avuto la promozione a Questore, sarebbe andato in pensione a dicembre 2022?

«Certo che no. Sarei stato operativo a 360 gradi, avrei potuto lavorare benissimo fino a 67 anni. Il motivo per cui io sono stato un problema non lo conosco, nessuno me l’ha detto, nessuno mi ha mai chiarito e credo che nessuno mai lo farà».

Lei non ha mai commentato la vicenda che lo ha coinvolto di cui poi ne è uscito assolto. Come l’ha vissuta e che idea si è fatto?

«Quando è finita bene non ho fatto nessun comunicato. Sono uscito non a testa alta, ma altissima e non ho chiesto nessun risarcimento. Quella vicenda naturalmente ha tantissimi fattori oscuri perché io ho letto il fascicolo e non c’era nessun elemento, neanche indiziario per andare avanti e che invece mi ha portato ad un processo che si è concluso con l’abbreviato. E’ stato un anno tristissimo senza la vicinanza di nessuno, neanche dei miei collaboratori. Io sono stato sempre una persona pulita, onesta intellettualmente sincera. Non ho mai nascosto nulla perché tutto quello che ho fatto l’ho fatto alla luce del sole.
La dottoressa Maiore, nella sentenza ha scritto che era quasi normale rivolgersi ad un’azienda per avere uno sconto. Chi non lo fa? Lo fanno politici, magistrati, forze di polizia, gente comune, chi non lo fa? Io, in quel periodo, mi sono rivolto a una persona che non aveva nessun precedente penale, un imprenditore, ma non ho ricevuto nessun beneficio. Ritengo che quella vicenda sia stata costruita ad arte, io qualche idea me la sono fatta ma non la posso esprimere perché se avessi degli elementi certi non sarei qui a parlarne».

Lei ha preso servizio a Lamezia due mesi dopo il duplice delitto Aversa– Precenzano del 4 gennaio 1992. Cosa si poteva fare di più nelle indagini, piene di errori e indirizzate verso quella che poi è la verità, almeno giudiziaria della vicenda, grazie alle dichiarazioni del killer pentito? Manca ancora qualche pezzo di verità?

«Io sono arrivato al commissariato di Lamezia Terme quasi due mesi dopo l’omicidio Aversa e della moglie. Venivo dal reparto mobile di Reggio Calabria. Ero molto giovane, naturalmente non avevo esperienza di polizia giudiziaria. Quando sono arrivato, Lamezia Terme era una città quasi tutta militarizzata. Mi sono trovato catapultato in un ambiente assolutamente nuovo e mi sono messo a lavorare su altri casi. Nessuno mi ha mai parlato di quello che era successo, nessuno mi ha detto quello che stava succedendo, so soltanto che c’erano tantissime forze di polizia aggregate, c’era un apparato dello Sco che faceva indagini sull’omicidio Aversa e della moglie, brutalmente uccisi.
A un certo punto è venuta fuori, da alcuni collaboratori di giustizia, una versione che ha portato a conclusioni diverse da quelle che erano state le prime indagini e credo che non tutta la verità sia venuta fuori. Aversa poteva essere ucciso in qualsiasi momento perché andava in giro da solo, non aveva la scorta e da quello che mi hanno detto era la punta di diamante del commissariato, Salvatore Aversa era il commissariato, mi chiedo quindi perché lo uccidono in quella serata, in quel posto e soprattutto anche la moglie e dopo qualche mese profanano e bruciano la tomba nel cimitero di Castrolibero?
Insomma tanti altri punti oscuri che non verranno mai chiariti. Sicuramente è stato un delitto di mafia per le modalità d’esecuzione e per le tante cose emerse dalle riunioni di storici esponenti della ‘ndrangheta. Però penso che non tutto sia stato chiarito e che la verità non verrà mai fuori».

Gli anni del commissariato di Lamezia. Anni difficili in cui vi siete trovati a contrastare cosche potenti e unite, quasi senza collaboratori di giustizia, lottando a mani nude visto che non c’era la tecnologia di oggi. Che ricordi ha?

«Ho cominciato a lavorare da subito con una squadra di collaboratori fidati e onesti, eravamo sei/sette persone e lavoravamo h24. Dal 92 fino al 2000, sono stati anni difficilissimi, perché c’era in atto la guerra di mafia per il controllo del territorio, delle estorsioni del traffico di armi e droga. C’era quasi un omicidio al giorno. Abbiamo raccolto nel giro di un anno tantissimi elementi indiziari su soggetti delle cosche dominanti all’epoca, mi riferisco ai Giampà, Torcasio e Cerra.
Dopo un anno è stato presentato un rapporto di polizia giudiziaria alla direzione distrettuale antimafia di Catanzaro e a luglio del 1993 sono state eseguiti sulla base del lavoro fatto da me e dai miei collaboratori, credo undici arresti di pericolosissimi esponenti dalla criminalità lametina. Per la prima volta la magistratura riconobbe l’esistenza della ‘ndrangheta a Lamezia Terme, cosa mai avvenuta a livello giudiziario. Sono stato a Lamezia Terme per 10 anni responsabile della polizia giudiziaria, abbiamo fatto circa 4000 arresti, la maggior parte per reati gravissimi e non è un dato di poco conto. Neanche la squadra mobile di città grosse faceva numeri così. Anche io sono stato preso di mira con incendi della mia macchina nel 1996 e nel 1997, ma sono andato avanti».

Ora che Lamezia vede?

«Sono tornato a Lamezia nel 2020, dopo 5 anni vissuti a Lecce. Vedo un apparato dello Stato decrescente anche se sono state fatte tantissime operazioni, ma non vedo quell’impegno che c’era una volta, anche parlando con qualche collega che incontro per strada. Quando sono tornato, ho trovato la città in uno stato di quasi zona franca dove ognuno fa quello che vuole. Non c’è presenza della polizia nelle strade, non ci sono controlli davanti alle scuole. Non si può lamentarsi sempre che manca personale. Ci deve essere solo la volontà di fare e di fare bene».

Dopo Lamezia, dove ha assunto anche le funzioni di dirigente reggente del commissariato, l’incarico di Capo di Gabinetto della Questura di Catanzaro e poi Vicario del Questore a Lecce. Tante soddisfazioni sul campo ma alla fine è mancata la “ciliegina sulla torta” sulla sua carriera?

«Avevo il sogno di poter lavorare per la mia Calabria alla quale sono attaccatissimo e ho avuto questa fortuna, ho raggiunto tantissimi risultati brillanti ma non ho raggiunto il massimo della carriera e questo non per mio demerito o colpa, ma per un disegno occulto. Evidentemente non stavo bene a più di qualcuno perché lavoravo senza guardare in faccia nessuno. Negli ultimi otto anni anche la mia famiglia ha fatto tantissimi sacrifici, i miei figli che mi hanno seguito quando stavo a Catanzaro fino al 2015, non li vedevo quasi mai. Hanno fatto dei sacrifici anche loro quando sono andato a Lecce, città bellissima. Ho gestito tutte le attività collegate alla vicenda del gasdotto con tutte le proteste e senza mai alzare un manganello».

La sua soddisfazione più grande in questi 35 anni?

A parte i successi che ho avuto dal punto di vista professionale, la cosa che più mi fa piacere è che quando incontro le persone che hanno lavorato con me e la gente comune, mi manifestano ancora grandissima stima e tutti quelli che mi hanno incontrato in questi ultimi anni mi dicono la stessa cosa: “dottore, ah quando c’eravate voi!”».

Lei scrive poesie.

«Scrivo poesie da quando andavo da ragazzino a 6 anni sulle colline di Monasterace con mio nonno a guardare le pecore e scrivevo sulle foglie di una certa larghezza portandomi dietro una matita. Scrivevo pensieri che mi venivano. Ho vinto anche qualche premio come “Il pino d’oro” nel lontano 96. Nella vita a volte una parola scritta e letta da altri ti dà quel conforto che forse nessuno ti può dare».

Se si potesse tornare indietro rifarebbe il poliziotto?

«Assolutamente sì. Farei di nuovo il poliziotto e lo farei con lo stesso impegno che ho messo dal primo giorno all’ultimo. Una cosa che rimpiango è di non aver preso, dopo la laurea, l’abilitazione di avvocato. Oggi avrei un’altra attività».

Dott. Nicola Miriello, ma perché non ha fatto ricorso sulla questione della nomina a Questore arrivata in ritardo?

«Non l’ho fatto per rispetto e senso del dovere che ho sempre avuto verso lo Stato».

Dottor Nicola Miriello, lei aspetta sempre qualcuno che la chiami per spiegarle il motivo del suo grande rammarico per non aver chiuso la sua carriera da Questore operativo e non sulla carta?

«Sì, quantomeno vorrei capire che cos’è successo negli ultimi anni della mia vita professionale. Non è che se uno va in pensione va in letargo. Mi sento ancora oggi di essere un poliziotto e sono amareggiato da certe cose che leggo sulla Pubblica Amministrazione».

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Francesco Ridolfi

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