INDICE DEI CONTENUTI
- 1 Maestro, l’ultima nostro incontro risale a tre film, suoi, fa; era il 2017, era appena uscito nelle sale cinematografiche “La tenerezza” e l’intervista si chiudeva con queste sue parole: “La nostalgia io non so neanche che cosa sia, io sono innamorato della contemporaneità. Se c’è una cosa di cui ho nostalgia è il futuro, quello che non riuscirò a vedere.. Domani lei compie ottant’anni: la pensa allo stesso modo?
- 2 Come si chiamano i suoi tre amori?
- 3 Perché? Forse perché la sua vita non è stata felice?
- 4 Neanche dei suoi vent’anni ha nostalgia?
- 5 Restiamo in Calabria, Maestro. C’è un grande dibattito, in questo momento, su come raccontare la Calabria, e tanta retorica, anche, nel raccontarla. C’è chi dice che è una “terra” (l’unica regione definita così…) da cui bisogna per forza scappare (e non è così), o dove chi resta è una specie di eroe (e non è così), o dove tutto è ‘ndrangheta (e non è così), o che è un paradiso terrestre (e non è così)…
- 6 Ma, insomma, lei la Calabria, come la racconterebbe alle sue tre nipoti?
- 7 La metafora dei giovani che guardano la Calabria con occhi nuovi e ce la raccontano. E lei? ci torna, d’estate?
- 8 Insomma, la vita la fanno le persone, e il passato è un bel problema…
- 9 Sì, ma questo domani, che la appassiona, e che ci appassiona, ci fa parecchio tribolare. Proprio domani, 20 gennaio, il giorno del suo ottantesimo compleanno, s’insedia Trump in America, i soldi e i satelliti di Musk aleggiano sulle nostre faccende, l’aria di destra soffia su tutto l’Occidente.
- 10 E L’Italia? Cosa è diventata un’Italia che costruisce un campo profughi, per fortuna ancora vuoto, in quell’Albania che nessuno come lei ha capito e raccontato nel momento del grande esodo degli Albanesi verso il nostro Paese. Tutti abbiamo in mente quel barcone carico di uomini che salpavano verso “Lamerica”, come lei ha intitolato quel suo capolavoro di film.
- 11 “Campo di battaglia”, l’ultimo suo film, racconta le conseguenze terribili della guerra, narrate dall’interno di un ospedale dove vengono curati i sopravvissuti alla carneficina e quelli che per non andare al fronte, con la complicità di un medico, si sono procurati ferite qualche volta irreversibili. Che cosa l’ha spinta ad affrontare questo tema? I tanti conflitti aperti, anche ai confini dell’Europa, il rischio di una guerra totale?
- 12 Nei suoi film si ritrovano temi forti del nostro tempo, grandi storie che attraversano la nostra realtà, civile e politica, e spesso la anticipano, ma lei, naturalmente, non fa cronaca, crea altri mondi…
- 13 E poi la sua passione per i personaggi controversi: Bettino Craxi, Aldo Braibanti, sbattuto in prigione perché omosessuale… Perché li ama? perché offrono maggiori possibilità di spessore drammaturgico? O perché, come nel caso di Braibanti, voleva rendere giustizia e dignità ad una vittima quasi sconosciuta?
- 14 Ma questo è Shakespeare, è re Lear. E lei che c’entra con Re Lear?
- 15 Quindi la mitizzazione passa attraverso l’identificazione totale. E Braibanti?
- 16 Si chiama “pietas”, Maestro, il suo identificarsi con i più deboli, con le vittime.
- 17 Quanto conta il suo lavoro con gli attori? Chi sono quelli, se ci sono, che lei considera “suoi”?
- 18 Maestro, qualche volta, con la sua macchina da presa, le è capitato di inquadrare Dio?
- 19 E dopo l’ultimo ciak? Il suo collega Louis Buñuel disse una volta: non m’importa di morire, purché ogni tanto mi sia consentito di svegliarmi e leggere il mio quotidiano. E se toccasse a lei di risvegliarsi?
Compie 80 anni Gianni Amelio, il grande regista di Magisano (CZ); in questa intervista, il rapporto con la Calabria, il tema della guerra, i suoi film
Giorgia ed Arianna? No, noi due siamo allergiche al potere. Thelma e Louise? No, troppo ardite, non abbiamo più il fisico. Antigone ed Ismene? No, a noi, nei libri e nella vita, piacciono gli happy end. Siamo solo due sorell’amiche, curiose e affascinate dalle storie dei “calabresi marziani a Roma” come noi, quelli con le radici volanti; quelli che creano, che fanno, che osano; quelli che, per una passione, si giocano la vita. Li cerchiamo, li incontriamo e ve li raccontiamo, e cominciamo da quello che tutt’e due di più amiamo, il viatico e il testimonial della nostra avventura: Gianni Amelio.
Maestro, l’ultima nostro incontro risale a tre film, suoi, fa; era il 2017, era appena uscito nelle sale cinematografiche “La tenerezza” e l’intervista si chiudeva con queste sue parole: “La nostalgia io non so neanche che cosa sia, io sono innamorato della contemporaneità. Se c’è una cosa di cui ho nostalgia è il futuro, quello che non riuscirò a vedere.. Domani lei compie ottant’anni: la pensa allo stesso modo?
«Non cambierei una parola di quello che dissi allora. La nostalgia si accompagna alla malinconia, o al rimpianto, che sono sentimenti tristi; io invece penso che compiere ottant’anni mi preservi dalla nostalgia: il tempo che verrà è talmente breve che va vissuto con più forza di quanta ne avevo quando ero giovane… bisogna fare, fare, fare! E poi io vivo un presente di sentimenti molto appagante, io amo le nuove generazioni perché le vivo ogni giorno, ho tre nipoti, una che ha ventun anni e due gemelle di diciotto, e io me le sono godute e me le sto godendo in modo totale.
Mi ricordo che una mia vicina di casa qualche anno fa mi disse: se le goda adesso che sono bimbe, perché a tredici anni spariscono, se ne vanno; io invece non le ho perse mai; io so che è giusto che loro abbiano la loro vita, le loro curiosità… come me, quando ero ragazzo, che avevo la passione per il cinema, e a casa mia non si sapeva neanche cosa fosse… insomma io capisco molto i miei tre amori grandi e vivo anche la loro vita…»
Come si chiamano i suoi tre amori?
«La più grande Audina, come mia madre. Lei ha vissuto nella mia casa, la mamma lavorava e la lasciava a me. Io fatto il nonno, il nonno vero: la accompagnavo la mattina a scuola, l’andavo a riprendere… e poi ci sono Alida e Sara. Affetti veri, che ho vissuto e vivo con ingordigia, quasi esageratamente, perché la vita che resta non è tanta… La memoria, poi, è un’altra cosa, ma io non vorrei tornare indietro per nulla al mondo».
Perché? Forse perché la sua vita non è stata felice?
«No no, io ho avuto dalla vita tanto! Certo, anche momenti difficili, ma io sono riuscito a realizzare il mio sogno più grande, ho fatto cinema! E non era facile, per uno nato a Magisano, sotto la Sila piccola, quattrocento abitanti, che adesso sono la metà, senza niente, niente… non dico un cinema, non c’era neanche un bar, solo una specie di “posto” che vendeva il sale, lo zucchero e le sigarette, e un altro che vendeva il pane e il vino, una specie di bettola “buona”, dove gli anziani giocavano a carte e bevevano il vino della casa. Non c’era altro.
E poi la miseria, il freddo… se uno aveva un problema di salute, era una tragedia, perché non c’era il medico: una mia sorellina è morta a due anni e mezzo, di una normalissima bronchitella… io e mia madre la portammo a piedi dal medico, fino al paese vicino, per sette chilometri, non ci fu niente da fare.
Oggi per una cosa così scoppierebbe una rivoluzione, ma anche allora, eh, c’era molto fatalismo, ma capivamo benissimo che cosa fosse la carenza di strutture, e ne soffrivamo… e io dovrei avere nostalgia?».
Neanche dei suoi vent’anni ha nostalgia?
«No, no… certo, avevo la forza della giovinezza, correvo in bicicletta, avevo pure imparato a cavalcare, ma non avevo un soldo, e a casa, certo, non potevano aiutarmi. Mio padre? avevo anche difficoltà a dire che lavoro facesse. Era emigrato in Argentina per quattordici anni e i lavori, lì, li aveva fatti tutti. E poi c’era una situazione familiare complicata. Mia madre era morta giovanissima, e giovanissima, a sedici anni aveva sposato mio padre, che di anni ne aveva diciassette, uno di quei matrimoni del Sud… lui, poi, si era risposato, e il centro della mia famiglia, come per tante famiglie calabresi, diventarono le mie nonne, donne fortissime, una aveva fatto la portantina in ospedale e poi diventò infermiera, è morta a 104 anni… insomma, io volevo andare a Roma ad inseguire il mio sogno, magari anche frequentando una scuola di cinema, ma come facevo a mantenermi?
Appena uscito dal liceo inondai la provincia di Catanzaro di domande per fare il supplente nelle scuole… ho insegnato persino al mio Galluppi, per tre mesi storia dell’Arte; era bello, eh… poi, sono arrivato al Centro Sperimentale di Cinematografia e ci sono rimasto dagli anni ottanta fino a qualche anno fa: come insegnante, di Cinema, naturalmente».
Restiamo in Calabria, Maestro. C’è un grande dibattito, in questo momento, su come raccontare la Calabria, e tanta retorica, anche, nel raccontarla. C’è chi dice che è una “terra” (l’unica regione definita così…) da cui bisogna per forza scappare (e non è così), o dove chi resta è una specie di eroe (e non è così), o dove tutto è ‘ndrangheta (e non è così), o che è un paradiso terrestre (e non è così)…
«La retorica è in qualche modo il veleno che uccide la ragione, l’intelligenza, la semplice riflessione… Com’è possibile che quando si parla di un Sud che non è la Calabria, pare che vada tutto bene? La Puglia, per esempio… non sarà amministrata da geni, quella regione! Un po’ abbiamo contribuito noi, giornalisti, intellettuali, scrittori… mi ci metto anch’io, anche se io non ho mai fatto un film in Calabria, non mi sono mai immerso in quella realtà. Perché? se andassi da un analista glielo chiederei… A parte “La fine del giorno”, che ho girato a venticinque anni, è la storia di un giornalista che viene da Roma e fa un servizio su un bambino che sta in riformatorio, è l’unico film al mondo girato a Catanzaro.
A proposito, quanto è diventata bella, Catanzaro! Una città rovinata urbanisticamente dalla politica, di destra, di sinistra, senza monumenti, ci pensate?… E invece, che sorpresa, ci sono tornato di recente: era una città cupa, triste… adesso la luce, il silenzio, il mare, magnifica. A parte il mio amato ex Politeama, che resta uno scempio, dove non verrei per nessun motivo a lavorare…»
Ma, insomma, lei la Calabria, come la racconterebbe alle sue tre nipoti?
«Non c’è bisogno che io gliela racconti, perché sono loro a raccontarla a me. Dal 2007 in poi, tutti gli anni che Dio ha mandato in terra, ogni estate, per due mesi, le bambine, la madre e mio figlio, se è libero dal lavoro, stanno in Calabria. A Fiumefreddo. In una casa al mare che hanno in affitto per tutto l’anno. E mi raccontano cose belle, anzi bellissime. O quella è un’oasi di brava gente, oppure è così la Calabria, non so: mi raccontano di nottate estive passate sulla spiaggia, di incontr con ragazzi e ragazze straordinari, non solo calabresi: a Fiumefreddo hanno costruito un telaio di amicizie con mezza Italia».
La metafora dei giovani che guardano la Calabria con occhi nuovi e ce la raccontano. E lei? ci torna, d’estate?
«No. Io ho un po’ di problemi a tornare a casa. E’ un fatto fisico: io entro in una stanza e lì ho visto morire mio padre, entro in un’altra e lì ho visto morire mia madre. Intorno a quella casa, quando ero un ragazzo, avevo piantato degli arboscelli… adesso sono degli alberi enormi, c’è per esempio un gigantesco albero di cachi, che dà chili e chili di frutti, e aranci e mandarini… tutto questo, invece di darmi gioia, mi dà una grandissima tristezza. E’ una casa abbandonata, non ci sono più i miei affetti, non la sento più casa mia».
Insomma, la vita la fanno le persone, e il passato è un bel problema…
«Il passato è un problema che si risolve col presente, e che si deve risolvere domani, dopodomani… questa è la vita».
Sì, ma questo domani, che la appassiona, e che ci appassiona, ci fa parecchio tribolare. Proprio domani, 20 gennaio, il giorno del suo ottantesimo compleanno, s’insedia Trump in America, i soldi e i satelliti di Musk aleggiano sulle nostre faccende, l’aria di destra soffia su tutto l’Occidente.
«Sarebbe buffo se non fosse tragico: fino all’anno scorso, quando dicevo: sono nato il 20 gennaio, tutti dicevano: ah, lo stesso giorno di Fellini!, e adesso ci si è messo Trump… per piacere, continuate a ricordarmi come uno che è nato lo stesso giorno di Fellini! L’insediamento di Trump è una sciagura che purtroppo non possiamo impedire, è una delle cose più terribili che possa oggi colpire il genere umano: lui, per dire. È il primo Presidente degli Stati Uniti che, se non fosse stato eletto, sarebbe andato in galera a vita. Intanto la Cina sta a guardare e sottotraccia lavora, e in Russia, un tiranno spaventoso, sanguinario…
E’ un mondo completamente fuori umanità, dove succedono cose che colpiscono persone che sono state già in qualche modo drogate nel cervello e non sono in grado di provare empatia e solidarietà. E i tiranni, che fanno? Spargono il terrore: se siete contro di me, dicono, il mondo andrà alla rovina, votate per me, perché io sono ricco e forte e vi salvo. E quindi la povera gente, compreso me, subisce. Io, però, lottando, perché non mi rassegno. Quello che si può fare, anche nel piccolissimo, bisogna farlo. Bisogna cominciare dai nostri rapporti personali».
E L’Italia? Cosa è diventata un’Italia che costruisce un campo profughi, per fortuna ancora vuoto, in quell’Albania che nessuno come lei ha capito e raccontato nel momento del grande esodo degli Albanesi verso il nostro Paese. Tutti abbiamo in mente quel barcone carico di uomini che salpavano verso “Lamerica”, come lei ha intitolato quel suo capolavoro di film.
«L’Italia è diventata “lamerica”, appunto, e forse lo era già. E tra l’Albania del mio film e l’Albania di adesso c’è la stessa differenza che passa tra Roma città aperta e La dolce vita: un altro mondo».
“Campo di battaglia”, l’ultimo suo film, racconta le conseguenze terribili della guerra, narrate dall’interno di un ospedale dove vengono curati i sopravvissuti alla carneficina e quelli che per non andare al fronte, con la complicità di un medico, si sono procurati ferite qualche volta irreversibili. Che cosa l’ha spinta ad affrontare questo tema? I tanti conflitti aperti, anche ai confini dell’Europa, il rischio di una guerra totale?
«Mi ha spinto il fatto che per anni ci siamo cullati nell’idea che il mondo fosse in pace, come l’Italia o come la nostra Europa; in realtà le guerre nel mondo non sono finite mai; ci sono, anche se le trincee non le abbiano sotto i nostri occhi, e le guerre non le vedi, se non ti toccano. Ho raccontato la Prima Guerra Mondiale come emblema di qualcosa che accadeva in modo assurdo, perché prima di tutto mancava una motivazione vera, cioè noi non eravamo stati invasi da nessuno, e poi perché ci hanno detto, alla fine, che la guerra era stata vinta, e quando mai? è stata vinta perché l’Italia si è seduta allo stesso tavolo dei potenti? L’Italia ha perduto quasi un milione di soldati, si diceva Patria, ma era un concetto totalmente astratto… un ragazzo siciliano parlava una lingua diversa da uno piemontese…..
Io non volevo fare un film di guerra, di avventura, con la musica e lo spettatore che quasi si diverte, ma un film sulla morte degli innocenti, quei ragazzi inconsapevoli che venivano da territori dove l’analfabetismo era totale, e che arrivavano a mutilarsi per andare a casa: il desiderio di vivere è talmente più forte della morte che uno si aggrappa a tutto, anche senza un braccio…».
Nei suoi film si ritrovano temi forti del nostro tempo, grandi storie che attraversano la nostra realtà, civile e politica, e spesso la anticipano, ma lei, naturalmente, non fa cronaca, crea altri mondi…
«Il mio compito è quello di essere cittadino del mondo come “testa”, come “mente”. Si parte sempre da una piccola storia, ma devi proiettarla fino a farla diventare problema dell’umanità. Il carabiniere calabrese del Ladro di bambini, per esempio, è un calabrese trapiantato a Milano, ma è stato capito dal mondo intero».
E poi la sua passione per i personaggi controversi: Bettino Craxi, Aldo Braibanti, sbattuto in prigione perché omosessuale… Perché li ama? perché offrono maggiori possibilità di spessore drammaturgico? O perché, come nel caso di Braibanti, voleva rendere giustizia e dignità ad una vittima quasi sconosciuta?
«Sono personaggi antitetici, ma, in qualche modo, sia Craxi che Braibanti c’entrano con me. Io racconto me stesso in ogni film, anche in quello apparentemente più lontano dalla mia vita. Di Craxi mi affascinava il dramma di un uomo che non sa accettare la decadenza del corpo, lui era malatissimo, e non si rassegna alla decadenza del potere. La sua arroganza lo portava a considerarsi quasi immortale e invece tutti gli avevano voltato le spalle, anche quelli che lui aveva beneficiato… Berlusconi, per dire… insomma, io, con “questo” Craxi mi sono in qualche modo identificato».
Ma questo è Shakespeare, è re Lear. E lei che c’entra con Re Lear?
«C’entro, perché c’è una figura-chiave in Hammamet ed è Stefania-Cordelia, la figlia di Lear-Craxi, che si attacca a lui, diventa la sua ragione di vita e lo spinge a vivere. E io una figura così la vorrei, anzi ce l’ho: è mio figlio. Ho voluto poi che Francesco Favino, che interpreta Craxi fosse identico a lui… avete presente il quadro di Magritte, quello che rappresenta una pipa? Sotto c’è scritto: “questa non è una pipa”. Volevo che gli spettatori dicessero: questo non è Craxi, è un re che crolla».
Quindi la mitizzazione passa attraverso l’identificazione totale. E Braibanti?
«Braibanti era un intellettuale di provincia che amava un ragazzo, maggiorenne, eh, ed è stato martirizzato dai bigotti e dai perbenisti; gli stessi che oggi tuonano contro l’aborto, pensano che sia una specie di contraccettivo, e non una enorme tragedia, che le donne affrontano con un dolore della madonna… e racconto anche, attraverso il personaggio del giornalista dell’Unità, di come il PCI, che io votavo, fosse un’altra chiesa, che non si batteva per i diritti: che gliene importa all’operaio in fabbrica?, dicevano i comunisti. E se ci fosse stato anche solo un operaio omosessuale in quella fabbrica? Io dico? Da quando sono diventato un personaggio pubblico, ho dichiarato la mia omosessualità, e non ho avuto nessun problema, ma penso ad un insegnante di provincia, alle tante persone buone, miti, come Braibanti, messe in croce perché sono omosessuali».
Si chiama “pietas”, Maestro, il suo identificarsi con i più deboli, con le vittime.
«Sì, non c’è una parola in italiano che traduca il termine “pietas”, forse “immedesimazione”, ed è un sentimento che nasce in me forse perché ho fatto la vita che ho voluto, e non è stato semplice, eh; l’ho dovuta prendere a morsi, la vita, ma non ho fatto compromessi, ho rifiutato film che non mi piacevano, non sono diventato ricco, in nome della libertà».
Quanto conta il suo lavoro con gli attori? Chi sono quelli, se ci sono, che lei considera “suoi”?
«Oh, amo talmente gli attori. Tutti. Io curo il più piccolo come se fosse il protagonista e li scelgo con grande cura, so già chi saranno mentre scrivo un film. Ne cito solo due: Jean-Louis Trintignant, così sofferente, impacciato, timido, intelligente, sensuale: il “mio” attore”; e poi Valentina, la protagonista del “Ladro di bambini”. Il rapporto con lei è stato sconvolgente. Era una grande donna, anche se era una bambina di dieci anni, con una grande ferita dentro; lei aveva bisogno di un padre e io ho in eccesso l’istinto paterno: si fidava di me, mi parlava, si confidava. Siamo stati talmente vicini, su quell’affollatissimo set, che era come se fossimo soli. E non ci siamo mai persi, adesso fa la maestra a Cagliari».
Maestro, qualche volta, con la sua macchina da presa, le è capitato di inquadrare Dio?
«No, mai. Dio io lo vedo nelle persone, posso vederlo anche se guardo una di voi due in faccia, ma non ci deve essere la macchina da presa. Le chiese mi piacciono vuote, ma, quando vado a messa, mi interessa la persona che sta accanto a me, è in lei che vedo Dio.
Mi fate venire in mente quando ero bambino e andavo al catechismo; gli altri avevano le scarpe, io no, io ero scalzo, e poi ci davano i biscotti, e per me era una festa».
E dopo l’ultimo ciak? Il suo collega Louis Buñuel disse una volta: non m’importa di morire, purché ogni tanto mi sia consentito di svegliarmi e leggere il mio quotidiano. E se toccasse a lei di risvegliarsi?
«Non voglio risvegliarmi per nessun motivo! Dietro la battuta diBuñuelc’è tanta aridità, tanto egoismo… se io dovessi risvegliarmi, dopo dieci, vent’anni dalla mia morte, e leggere “sul giornale di Buñuel” che è capitato qualcosa a a mio figlio, alle bambine… oh, no, no!»
Auguri, Maestro, per i suoi ottant’anni belli e per il film che sta preparando, che sarà bellissimo. Abbiamo capito che moriva dalla voglia di anticiparci qualcosa, ma… Ci ha detto solo che ha un bellissimo titolo e che sarà ambientato in Prati, nel quartiere romano dove vive, intorno al baretto sotto casa sua, lo stesso dove ci siamo ritrovate con lei per questa chiacchierata, e dove ci ha fatto sorridere, commuovere, riflettere, sognare, volare. Come coi suoi film, grazie.
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