Il policlinico Mater Domini di Germaneto a Catanzaro
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CATANZARO – Ritorno alla “medicina classica” e centralità della medicina legale. È forse la sintesi più efficace delle risultanze dello studio “Analisi del tempo di persistenza del virus Sars-Cov-2 nel cadavere e rischio di infezione allo staff dell’autopsia”.
Uno studio dall’altissimo valore scientifico che ha visto, fra gli altri, protagonista il Policlinico Universitario Mater Domini e l’Università Magna Graecia. Decisione iniziale, collaborazioni, metodologia ed approdi scientifici sono stati esposti al Quotidiano del Sud dalla professoressa e ricercatrice Isabella Aquila. Il fulcro centrale è ovviamente il Dipartimento di Medicina Legale, la cui scuola di specializzazione è diretta dal professor Pietrantonio Ricci.
LE ORIGINI DELLO STUDIO E LE COLLABORAZIONI
«Si è trattato di un lunghissimo lavoro che è iniziato la scorsa primavera nel pieno della prima ondata – ha spiegato la dottoressa Aquila – e che è sia intra universitario che inter universitario. Abbiamo infatti collaborato con l’Università Cattolica di Roma e l’Università di Napoli».
Lo studio ha visto la cruciale collaborazione di diverse Unità Operative del Mater Domini. Su tutte, il Laboratorio di Microbiologia diretto da Giovanni Matera e le unità operative di Malattie Infettive ed Anestesia e Rianimazione dirette rispettivamente dai professori Carlo Torti e Federico Longhini.
«Il nostro intento era quello di capire il comportamento del virus all’interno del cadavere – ha proseguito Aquila – perché ci trovavamo in un momento storico in cui erano presenti due problemi centrali che riguardavano nello specifico la gestione delle salme e il divieto di autopsie su cadaveri covid. In particolare la legislazione sulle salme ci ha spinto a condurre la ricerca, visti i divieti imposti a tutti i tipi di riti religiosi, non solo cattolici. C’era dunque anche un problema di alterazione della religiosità».
IL PRIMO APPRODO: IL VIRUS RESISTE NEI CADAVERI
È giusta la scelta di non celebrare funerali e cremare direttamente le salme? La prima parte dello studio risponde positivamente a questa domanda, avallando la linea direttrice imposta dall’Oms.
«Per verificare la persistenza del virus – ha spiegato la professoressa – abbiamo eseguito sul cadavere più tamponi in tempi diversi, da appena deceduto fino a diversi giorni dopo la morte. Le analisi hanno evidenziato anche una relazione tra la persistenza del covid e rapporti con comorbidità. Per comprendere il trend abbiamo confrontato i nostri risultati con quelli ottenuti dalle Università di Napoli e di Roma, che hanno adottato metodologie molto simili alla nostra».
E gli esiti ottenuti dall’equipe del professor Antonio Oliva della Cattolica di Roma e del professor Ivo Iavicoli della Federico II di Napoli sono sovrapponibili. «I tamponi eseguiti sui cadaveri – ha precisato Aquila – non sono stati solo i classici test naso faringei. Abbiamo anche fatto test endo bronchiali perché dopo qualche giorno abbiamo notato che mentre il test classico dava esito negativo, il virus persisteva internamente. E da qui abbiamo notato una persistenza ben più elevata rispetto ad altri patogeni, quali ad esempio Hiv o epatite. Per questo abbiamo studiato la resistenza del virus ad un ambiente acido come quello cadaverico. Il Ph, infatti, si abbassa subito dopo la morte ed abbiamo constatato che l’acidificazione non portava il virus a scomparire. Addirittura abbiamo notato che il virus resisteva anche alla formazione delle ammine, quali ad esempio putrescina o cadaverina, che determinano un aumento basico. Questo approdo ha consentito di dare forza ai protocolli statali e dell’Oms sulla gestione delle salme».
LE AUTOPSIE: FORSE TROPPA PRUDENZA?
C’è però una seconda parte dello studio, un’analisi collaterale, che si pone contro la decisione di vietare le autopsie sui cadaveri covid.
«Noi siamo l’unico centro nel Sud Italia che oggi pratica autopsie covid – ha spiegato la professoressa – e sono condotte con un protocollo rigidissimo e particolari dispositivi di protezione individuale. È prevista svestizione, bagno nel cloro ed altre accortezze che in oltre 20 riscontri diagnostici (ossia autopsie cliniche) hanno dato conferma che le autopsie si possono fare. Abbiamo testato lo staff, ci siamo sottoposti a tampone prima e dopo e mai nessuno ha contratto il covid. Con il nostro protocollo si possono fare e quindi la decisione dell’Oms va smentita. Questo soprattutto perché l’autopsia consente di studiare meglio la malattia. Il covid è malattia sistemica, non colpisce solo i polmoni come si potrebbe pensare. Osservarla attraverso le autopsie ha consentito di avere grandi risultati anche sulle cure messi in pratica dal professor Longhini».
Una ricerca scientifica «che abbia uno scopo ed un fine», come da precisa mission che la professoressa Aquila vuole perseguire per una storia che ancora una volta conferma che la Calabria è anche e soprattutto eccellenza di cui andar fieri.
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