Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte
4 minuti per la letturaSul duplice omicidio dei netturbini tre pentiti parlarono del “caso” ma ora le indagini potrebbero essere riaperte solo se ci saranno nuove dichiarazioni dei pentiti
LE indagini sul duplice delitto di 32 anni fa degli operai comunali Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte (e del ferimento di Eugenio Bonaddio che riuscì miracolosamente a scampare all’agguato) potrebbero essere riaperte solo se ci saranno nuove dichiarazioni dei collaboratori di giustizia.
È quanto emerso nel corso della commemorazione di mercoledì scorso sul luogo dell’eccidio (quartiere Miraglia), e in particolare dalle dichiarazioni del sostituto procuratore della Repubblica di Lamezia, Santo Melidona, confermate da Francesco Cristiano, fratello di Pasquale, che ha ricordato di aver incontrato i procuratori Curcio e Gratteri consegnando a loro documenti.
Dichiarazioni di collaboratori, dunque, nuove, visto che in passato non sono mancate. Eppure a maggio del 2013, sembrava fosse arrivata la volta buona per la riapertura delle indagini così come riferirono l’allora procuratore aggiunto Borrelli della Dda, e l’ex capo della Mobile di Catanzaro, Ruperti, ai familiari di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, i due netturbini uccisi il 24 maggio 1991 (un terzo, Eugenio Bonaddio, rimase ferito e riuscì miracolosamente a sfuggire ai pallettoni) mentre erano impegnati al quartiere Miraglia nella raccolta dei rifiuti.
Le due vittime furono freddate all’interno del camioncino della raccolta dei rifiuti. Ma alla fine le indagini non furono riaperte.
I PENTITI E LE RIVELAZIONI SUL DUPLICE OMICIDIO DEI NETTURBINI
In passato almeno tre (ex) collaboratori di giustizia parlarono del duplice delitto. A dicembre del 1992, il super pentito Antonio Fiorentino aveva dichiarato che l’imputato del processo- Agostino Isabella- gli aveva confidato che i “suoi amici” volevano mettere in condizione di «non nuocere il testimone oculare di quel delitto» ossia Bonaddio, «minacciandolo del sequestro di un parente o della sua uccisione, se non avesse ritrattato la sua deposizione».
Il pentito raccontò inoltre che Isabella gli avrebbe confidato di aver commesso il delitto- che doveva avvenire in un altro luogo- in quanto era associato a tre-quattro persone intenzionate a gestire il servizio di nettezza urbana, ma non disse di quali persone si trattava.
Ancora: a marzo 2012, l’allora deputata del Partito democratico Doris Lo Moro (già sindaco di Lamezia) presentò una interrogazione ai ministri dell’Interno e della Giustizia per la protesta dell’allora collaboratore di giustizia Massimo Di Stefano il quale chiese auto per la revoca del programma di protezione.
Di Stefano, legato negli anni Ottanta alle cosche lametine dei De Sensi prima e dei Giampà – Torcasio – Cerra poi, diventò collaboratore di giustizia nel 1995. Di Stefano, in quegli anni, avrebbe fornito informazioni pure sul duplice omicidio di Pasquale Cristiano e Francesco Tramonte, e raccontato la sua verità su altri delitti, come l’omicidio di Antonio Mercuri, candidato alle elezioni del consiglio comunale di Lamezia Terme del Psdi, ucciso l’11 maggio del 1986. Per queste rivelazioni Di Stefano e la sua famiglia fu protetto dallo Stato italiano per 15 anni.
«Il pentito Di Stefano – scrisse Lo Moro nell’interrogazione del 2012 – avrebbe riferito che il mandante del duplice omicidio di Pasquale Cristiano e Vincenzo Tramonte, i due netturbini uccisi il 24 maggio del 1991, “sarebbe un autorevole esponente di una cosca lametina che ai netturbini aveva suggerito di non fare il proprio lavoro” e precisato “di aver descritto il quadro della vicenda agli inquirenti fornendo indizi che avrebbero potuto portare all’identificazione dei killer e dei mandanti, ma lo scenario non fu approfondito perché c’erano politici di mezzo”».
Dopo Massimo Di Stefano nel 1996, anche un altro ex collaboratore di giustizia, nel 2010, parlò dell’uccisione di Tramonte e Cristiano. I verbali facevano parte dell’indagine “Cerbero” dei carabinieri confluitii poi nell’inchiesta Medusa. Secondo i collaboratori, il movente del duplice delitto sarebbe stato riconducibile a contrasti per la gestione del servizio della raccolta dei rifiuti (come emerse nel processo contro il presunto autore Agostino Isabella) in particolare a contrasti tra i clan Giampà e Iannazzo, quest’ultimo – secondo l’ex pentito – estromesso dal servizio per la raccolta rifiuti all’epoca dei fatti.
Secondo gli ex pentiti dell’epoca, Francesco Giampà “il professore”, capo storico della cosca, avrebbe riferito a Pasquale Giampà, “tranganiello”, che la sua «volontà» sarebbe stata quella «di far estromettere i Iannazzo dalla gestione dei rifiuti. Cosa questa che di fatto avvenne» raccontò il pentito, per il quale dopo «tale decisione assunta da Francesco Giampà», all’indomani delle elezioni comunali del 1991, venivano uccisi sotto le raffiche di kalashnikov i due netturbini. E il 16 aprile 2016, l’ex boss Pasquale boss Giampà, disse di «non essere in grado» di riferire circostanze specifiche in ordine al duplice omicidio dei netturbini.
Un caso giudiziario che si concluse il 18 luglio del 1996 visto che contro il presunto autore Agostino Isabella, assolto in primo grado, non si celebrò neppure il processo d’appello. Il pubblico ministero, Luciano D’Agostino, infatti, presentò l’appello in ritardo e la sentenza di assoluzione divenne esecutiva. Un altro punto oscuro, mai chiarito, della tragica vicenda.
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