Il luogo dell’attentato Ciriaco
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Verso sera squilla il mio cellulare. Sul display il nome Pasqualino Rettura significa notizia buona da Lamezia.
«Paride, ho la sentenza d’Appello del delitto Ciriaco. Ribaltato il verdetto precedente di assoluzione».
«Pasqualì ma l’avvocato? L’omicidio che abbiamo seguito assieme 19 anni fa?» Proprio quello.
I pensieri ritornano a due decenni addietro…
Delitto eccellente. “Brancolavano” nel buio gli investigatori, secondo la frase di prammatica. Da cronista mi era andato a infilare nelle tenebre di Lamezia Terme, allora terza città della Calabria. Una sorta di Brasilia mancata nata su tre diversi agglomerati che spesso di urbano avevano poco o forse molto. Lamezia afflitta da misteri e ‘ndrine ferocissime colluse con colletti bianchi, ma spesso curata da momenti di risurrezione civile.
Città da colpi di scena. Rosetta Cerminara è l’eroina d’Italia. Protagonista del circo mediatico del tempo, sostiene di aver visto gli assassini del sovrintendente di polizia Salvatore Aversa e della moglie, Lucia Precenzano. Accusa il fidanzato. Anni dopo grazie ai pentiti si scopre che i killer erano altri.
Rosetta ha mentito.
Crollano i teoremi della sociologia femminista di Arcavacata, molti dimenticano la poesia di Violante, qualcuno ricorda l’onorificenza del presidente Scalfaro assegnata prima di una sentenza definitiva. L’oblio cala su Rosetta, gli Aversa fanno parte del memoriale delle vittime (compreso l’oltraggio della bara incendiata al cimitero di Castrolibero) insieme agli altri innocenti.
Era il marzo del 2002.
L’Italia aveva definitivamente soppresso la lira, in un naufragio verso Lampedusa erano morti 50 migranti, riapriva il traforo del Monte Bianco chiuso da un incendio tre anni prima. Berlusconi era il presidente del Consiglio.
Era sera anche il primo marzo del 2002, quando Pasqualino Rettura aveva lasciato la sua cena con baccalà telefonando di corsa per far smontare il giornale. A Calderaio di Maida un noto avvocato, Torquato Ciriaco, uno dei migliori civilisti e amministrativisti del circondario, 55 anni, era stato affiancato nel suo fuoristrada da una Punto bianca targata Reggio Calabria e ammazzato da due sicari con lupare di ordinanza. Non si era mai saputo se ci fosse un terzo.
Ciriaco amministrava l’azienda agricola di famiglia ma era anche dritto nel saper fare affari per sé e per i suoi clienti.
Una persona senza macchie e senza sospetti.
Lamezia è sotto choc. Sono anni di piombo. Impazza la guerra tra i Torcasio e i Giampà. In due anni sedici omicidi tra i compari locali che si ammazzano in mezzo al mercato o davanti ai figli. Ad uno dei Torcasio volevano farlo saltare in aria con una bomba nascosta in un cesto. L’ordigno non esplode. Ci pensa la pistola. Una guerra più lunga di quella di Troia raccontata da Omero. Quel fenomeno che il giornalista Gianfranco Manfredi aveva definito “congresso armato” e che secondo la sua analisi serviva a sancire i nuovi equilibri per la gestione degli affari criminali lametini del primo decennio del XXI secolo.
Oggi Manfredi si occupa in maniera sublime di enogastronomia anche per il Quotidiano del Sud.
A Lamezia non sono tutti boss e c’è stato un momento in cui i morti della guerra di mafia sembravano solo fatti loro. Con l’avvocato Ciriaco cambia il copione. Ora ammazzano anche la gente per bene. Ai funerali ci sono centinaia di persone.
In quel mio antico reportage gli indizi portavano a guardare ad una sala Bingo inaugurata 15 giorni prima. Anche il vescovo dell’epoca, Monsignor Vincenzo Rimedio, al cronista oltre a rivelare «la preoccupante esplosione della società locale» si era lasciato sfuggire il pensiero: «Eh quel Bingo».
C’era stato rumore attorno a quell’affare. Tutto ruota attorno alla sala dell’ex cinema Capitol. Un Nuovo cinema Paradiso noir. Esercizio cinematografico e struttura un tempo proprietà del signor Grandinetti. Lamezia era rimasta senza cinema a causa di un tracollo economico che aveva fatto finire nelle aste fallimentari diverse attività economiche legate allo spettacolo.
Il cinema, il comune, Gianni Speranza e Doris Lo Moro
Oggi si vede il cinema a Lamezia grazie all’acquisizione fatta dal Comune nella gestione di Giannetto Speranza.
La sua fu una giunta di rinnovamento, durata dieci anni dopo due scioglimenti per mafia. Un’esperienza raccontata nel libro “Una storia fuori dal comune” in cui si rievoca il suo governo da anatra zoppa, avversato dalle ‘ndrine che incendiarono il portone del Comune, dove si era appena insediato, per non far svolgere un consiglio comunale straordinario di protesta contro un attentato. Speranza fu emarginato dalla sinistra.
Stessa sorte di Doris Lo Moro, ex magistrato, parlamentare e anche lei sindaco di rinnovamento dopo il primo scioglimento per mafia del Comune. Anche per lei un libro: «Racconto di un impegno».
La sala cinematografica era stata rilevata dalla “Bingo games”, una srl che aveva investito oltre cinque miliardi di lire per quel business legato al divertimento della tombola per tutti, oggi soppiantato dal digitale e dai Gratta e vinci.
Un garbuglio calabrese, quello dell’acquisizione. L’avvocato Ciriaco aveva avuto il suo bel da fare per sbrogliare la lite giudiziaria, riuscendo ad ottenere il miglior vantaggio nell’acquisto del cinema.
Due settimane prima di morire l’avvocato aveva fatto gli onori di casa all’inaugurazione del locale accogliendo anche il presidente della Regione, Peppino Chiaravalloti, che era venuto a tagliare il nastro della più grande sala gioco della Calabria e terza del meridione per investimenti e attrezzature.
Ciriaco era consulente dell’imprenditore Salvatore Mazzei, un businessman da cui l’avvocato manteneva la giusta distanza di scrivania.
Mazzei significa ciclo del cemento e appalti dell’autostrada sul tratto ndranghetista Iannazzo-Mancuso. Socio anche nell’affare del Bingo. Vent’anni dopo combatte con la confisca delle sue ricchezze. La borghesia mafiosa calabrese è complessa da decifrare. Soprattutto a Lamezia.
Il Bingo fu chiuso per ordinanza prefettizia legata all’omicidio dell’avvocato. Ma oggi sappiamo, vent’anni dopo, come in un romanzo di Dumas, che la pista del Bingo non era quella giusta.
Il movente era una cava
Il movente era una cava. Situata su un terreno di cui una parte era di proprietà vescovile. Ma maledettamente situata anche nella zona del clan Anello. Che preferivano la proprietà di chi pagava regolarmente il pizzo. E non volevano tra i piedi Salvatore Mazzei, sempre lui. È la stessa cava che compare nel decreto del secondo scioglimento per mafia e che cita il delitto nelle motivazioni del provvedimento.
Il ministro dell’Interno, Beppe Pisanu, si vide costretto a sciogliere il comune guidato da un sindaco del suo partito (Forza Italia), Pasquale Scaramuzzino. Volto pulito. Motivato ma ingenuo. All’epoca denunciò complotti prefettizi restando isolato e incartato nel ruolo del perdente.
Alla manifestazione dell’otto marzo del 2002, il sindaco aveva voluto ricordare, come donna simbolo, Giulia Serrao Ciriaco, la vedova di Torquato che aveva annunciato di voler prendere il posto nel marito per continuarne l’attività professionale. Come poi è avvenuto. Ma Giulia Serrao, nome da romanzo, ha sostenuto anche una lotta per avere giustizia in cui non sono mancate lettere aperte al Quirinale e battaglie di ogni tipo.
«Una vedova e sei figlie orfane» ripeteva addolorato il sindaco Scaramuzzino, che è anche avvocato. Oggi fa l’opinionista su Facebook, tratta anche di malagiustizia, ma non ha commentato la clamorosa svolta del delitto Ciriaco.
A quel tempo non conoscevo ancora don Giacomo Panizza, il sacerdote bresciano fondatore di “Progetto Sud” costretto a vivere sotto scorta per essersi opposto ai clan lametini. La Chiesa a Lamezia è stata un buon argine al male perenne. Ha collaborato con i sindaci virtuosi ed ha mobilitato le sue strutture.
L’affaire Ciriaco dopo qualche mese perse attenzione, la famiglia fu abbandonata nei processi.
Arriva il pentito. Si chiama Francesco Michienzi. È amico di Santino Panzarella, scomparso quattro mesi dopo l’omicidio dell’avvocato Ciriaco cui aveva partecipato. È il terzo uomo dell’agguato. Michienzi collabora e racconta tutto sulla cosca degli Anello.
E come nei teloni dei cantastorie incrocia la mamma di Santino. Angela Donato, donna di fiuto e di ambiente, che pedinava il figlio per salvarlo. Circostanza che le permette di vedere la Punto bianca targata Reggio Calabria usata per l’agguato mortale. Le descrizioni del capannone e dei fatti non lasciano dubbi.
Ma i processi sono un gioco dell’oca. Il boss Anello, i killer fratelli Fruci e il cantatore Michienzi sono tutti assolti in aula «per non aver commesso il fatto».
La Procura però sapeva il fatto suo con quel presidente, Gabriella Reillo, che era stato segnalato nel casting del Pd per scegliere la donna presidente. In Appello è emersa una nuova verità. I killer hanno preso trent’anni, erano loro, i Fruci indicati dal pentito e inchiodati dalla mamma di Panzarella. Il boss, presunto mandante dell’omicidio, è stato assolto. Non conosciamo ancora le motivazioni della sentenza.
Sappiamo però che il movente dell’omicidio è stata la cava. L’avvocato è stato vittima di una vendetta trasversale. Torquato aveva avuto il solo torto di essere troppo bravo e poco attento alle insidie del territorio in cui operava come consigliori legale.
Un consulente di alto profilo, l’avvocato. Amministrativista ferrato e civilista di grido. Nell’attività penale solo qualche causa di poco conto. Niente mafia e maxiprocessi per quell’accorsato studio di piazzale della Repubblica posto di fronte al Tribunale di Lamezia. Un plotone di avvocati guidati con piglio sicuro e manageriale. Ciriaco aveva da poco vinto al Tar per conto dell’amministrazione comunale il contenzioso contro un ricorso che voleva invalidare le elezioni. Quell’avvocato però era consulente di uno degli imprenditori emergenti della città, Salvatore Mazzei. Quello della cava e del Bingo.
Quello di Torquato fu un nuovo omicidio eccellente a Lamezia. A dieci anni prima risale quello del sovrintendente Aversa e della moglie. Con i suoi tragici e paradossali colpi di scena. Nel 1975 davanti l’uscio di casa avevano invece ucciso Francesco Ferlaino, avvocato dello Stato. Sono cadaveri eccellenti anche due incolpevoli spazzini ricordati in effige da un murales.
La mafia di questa zona è diventata imprenditrice con i soldi di alcuni celebri rapimenti e con un traffico di droga di alto livello. Negli anni Ottanta avevano iniziato vendendo marijuana coltivata sul Reventino e nascosta sotto i poderi di campagna dei contadini. Poi sono passati all’eroina.
Passeggiando nel centro di Lamezia vent’anni fa osservavo le insegne di oltre venti istituti bancari. I grandi gruppi arrivavano in massa per raccogliere denaro. Oggi il denaro sporco è immerso nella finanza globalizzata.
Un altro avvocato è stato ucciso a Lamezia nell’agosto del 2016. Si chiamava Francesco Pagliuso. Non aveva la scrivania a distanza dei clienti mafiosi, come ha chiosato il Procuratore Gratteri che a Lamezia ha installato l’aula bunker di Rinascita Scott per il maxiprocesso ai confinanti mafiosi del Vibonese. Mancuso in testa.
A Lamezia volti sorridenti promettono favori, stringono tante mani, offrono appalti, voti e finanziamenti a costo zero. Oggi come vent’anni fa. Poi ci sono gli affiliati. Quasi tutti noti. Seppelliti da anni di carcere. E i collusi. Tanti. Molti ignoti.
Infine ci sono i referenti politici delle cosche. Parlamentari di Seconda e Terza Repubblica hanno sempre dovuto dare spiegazioni ad una magistratura che indaga dappertutto seguendo i soldi e alla stampa che ancora chiede conto.
C’è anche Domenico Furgiuele, deputato della Lega indagato per mafia, lui sostiene di dover chiarire soltanto una presunta turbativa d’asta, vicenda tutta ancora da verificare in tutti i suoi aspetti investigativi e giudiziari. È anche il genero di Salvatore Mazzei, ancora lui. Il parlamentare fa presente che ha conosciuto sua moglie all’età di 14 anni e che la sua carriera politica non ha mai incrociato le attività del suocero. Si spera che l’appena costituito Dipartimento antindrangheta della Lega non si giri dall’altra parte. Intanto nel 2019 il Consiglio comunale è stato sciolto per mafia per la terza volta. Con molti pupari rimasti a giocare con i fili nella penombra.
In questa tela del ragno è morto l’avvocato Torquato Ciriaco.
Vent’anni per scoprire una verità giudiziaria ancora parziale. Lamezia Terme è come un romanzo di Dumas. Ora si aspetta la costruzione degli studios annunciati da Giovanni Minoli. Lamezia potrebbe diventare Lameziawood e si spera possa mettere in archivio terribili delitti e orrende pene vissute da una città troppe volte piegata dalla presenza della ‘ndrangheta.
Ha collaborato PASQUALINO RETTURA
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