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Mafia dei boschi: nuove rivelazioni degli ex boss di Petronà e Cerva oggi pentiti: «Così ci siamo presi Catanzaro». La decisione al summit di Mesoraca e le affiliazioni al villaggio di Isola
CATANZARO – Il grado della “santa” gli fu conferito nei pressi del villaggio turistico della Valtur di Isola Capo alla presenza dei pezzi grossi della cosca Arena: almeno questo è quello che racconta Antonio Iervasi, 47enne ex boss di Cerva, dove il Comune è stato sciolto per mafia nei mesi scorsi. «Confermo di voler collaborare con la giustizia. Io sono il capo di Cerva, vicino a me c’era Michele Griffo, Danilo Monti, mio fratello Gianfranco». Inizia con la descrizione puntuale della sua affiliazione alla ‘ndrangheta, che risale a oltre 20 anni fa, il primo verbale di Iervasi.
Ma la scalata alla gerarchia criminale si compie nel 2006, con l’acquisizione della dote criminale dei capi. «C’erano Mario Gigliotti (reggente della cosca della vicina Petronà, che da poco si è pentito pure lui), Beppe Lequoque, Franco Gentile. Eravamo a Isola, fuori dal villaggio Valtur, perché noi facevamo riferimento agli Arena». La cosca di Cerva era alleata a quella dei Carpino di Petronà, in guerra con la famiglia Bubbo. Gli isolitani imposero la pax nella Sila catanzarese.
E se l’ex sindaco di Cerva Fabrizio Rizzuti, arrestato nell’operazione Karpanthos, si ritrova suo imputato nel procedimento a carico di 71 imputati perché accusato di essere vicino alla cosca, Iervasi rincara la dose sulle infiltrazioni dei clan nella vita politica e amministrativa mettendo in luce che il suo predecessore Mario Marchio sarebbe stato «simpatizzante dei Bubbo». Ma lo stesso Iervasi lo avrebbe sostenuto, finanziando con 3mila euro la sua campagna elettorale e raggiungendo un simile patto: « Marchio ci avrebbe portato le imprese che vincevano gli appalti e poi io e Giovanni Sacco (altro esponente del clan, ndr) avremmo concluso l’accordo estorsivo». Del resto, «chiamavano quattro, cinque imprese ma risultava vincitrice chi voleva lui».
Marchio non a caso nelle sue liste avrebbe inserito parenti di Iervasi. Il nuovo pentito parla anche di campagne elettorali infuocate. Nel 2012 avrebbe incendiato l’auto di una candidata nella lista di Rizzuti, e a un altro che appoggiò quest’ultimo spararono alla porta. Ecco perché Iervasi svolgeva lavori per conto del Comune di Cerva. «Nel 2008 ho fatto la recinzione per l’area ecologica, il lavoro me lo ha dato in trattativa privata Marchio, e poi per anni gli ho tolto la neve, mi pagava una tantum, fatturavo come ditta Iervasi». Forse la contropartita dopo che aveva raccolto voti, stando alla sua versione, e aver controllato le schede tramite «segni identificativi», è detto nel verbale.
Iervasi sostiene di essersi rifiutato di compiere l’omicidio di Giuseppe Rocca, uno degli esponenti di spicco dei Carpino, la cui eliminazione era stata deliberata durante un summit a Isola. «Non avrei mai fatto una cosa del genere». A suo dire, dal 2014 si sarebbe “allontanato”, “evitando tutti”. Ma non poteva “evitare” Mario Gigliotti, reggente della vicina Petronà (essendo i fratelli Francesco e Salvatore Carpino detenuti e fuori regione), col quale aveva stretto un rapporto di comparaggio.
“Canta” anche Gigliotti, e da tempo ormai. Il racket era imposto anche alle ditte impegnate nella realizzazione di parchi eolici a Petronà e Andali, e in un caso un poliziotto passò proprio mentre lui intascava i soldi. «Filippo Bubbo ha commentato che se non ci aveva visto era meglio». Tentacoli anche sugli appalti pubblici. «Un consigliere di Cerva che si occupava dei lavori ci ha fatto fare un progetto di un parco giochi e lo ha dato alla ditta che preferiva lui». Il clan incassava la sua quota a ogni tranche di pagamento. L’ultima Gigliotti non l’ha intascata perché poi è stato arrestato.
I “bravi ragazzi” dei boschi non si fermavano mai: si intrufolavano anche nel capoluogo regionale mettendo a segno estorsioni su estorsioni. Gigliotti racconta che il “delegato” della “montagna” su Catanzaro era lui, e dal 2015. «Si era fatta una riunione sul monte Giove, tra Petronà e Mesoraca». C’erano i pezzi grossi dei clan della Sila e del Crotonese. Franco Gentile di Isola disse: «su Catanzaro è difficile, ci sono gli zingari e poi ci fanno fare brutte figure se pigliamo impegni con le imprese». E il boss di Mesoraca, Mario Donato Ferrazzo, rispose: «se lasciamo Catanzaro, dove vuoi andare?» Ecco perché «Catanzaro e montagna stavano insieme, “Topolino” (nomignolo di Ferrazzo, ndr) mi mise responsabile, uno zingaro invece era responsabile dei furti, si chiamava “il Marocchino”».
La supremazia di Ferrazzo era incontrastata: faceva i “pacchetti”, nel senso che i soldi delle estorsioni andavano a lui e poi li “divideva” tra i referenti nei vari centri della Sila catanzarese. Il “vice” era Gigi Pane di Belcastro. Ma «i primi soldi vanno ai detenuti».
Le regole sono le regole, nella ‘ndrangheta, e uno come Gigliotti deve saperlo benissimo, considerata la sua posizione apicale e i suoi precedenti: spicca una condanna a 5 anni per detenzione di un kalashnikov per la quale fu arrestato a Chiavari insieme a Domenico Colosimo, “azionista” della mafia dei boschi. Colosimo già “canta” da settembre, poco dopo gli arresti nell’operazione Karpanthos. Le tre gole profonde potrebbero aprire squarci di luce su una faida ultraventennale che ha seminato una lunga scia di sangue nei boschi.
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