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Saverio Ungheri; foto di Andrea Nemiz

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Il “Polmone pulsante” che sbuffa l’arte di Saverio Ungheri, originario di Rizziconi, sperimentò strade nuove e fondò l’Astralismo e la Bionika


«L’arte non sapevo cosa fosse, finché non l’ho inventata». Saverio Ungheri raccontava così il suo percorso artistico e non per chissà quale superbia (era l’uomo più mite e meno arrogante che si potesse conoscere). Lo diceva perché, davvero, ha cercato prima di tutto di capire cosa di artistico avesse dentro di sé, per poi tirarlo fuori attraverso le sue tele e, più tardi, attraverso le sue macchine meravigliose che sembravano pulsare di vita propria. Anzi, che ancora (e per sempre) pulsano, sbuffano, si gonfiano e si sgonfiano così come facciamo noi uomini e donne per vivere, nell’antro di Salita del Grillo.

Ora, fino al 24 agosto, le opere (fisse o in movimento) del grande artista calabrese sono esposte a Palazzo Merulana a Roma nella mostra “Saverio Ungheri, visioni metapsichiche” curata dal professor Andrea Romoli Barberini docente all’Accademia di Belle Arti di Napoli, dalla dottoressa Andreina Ciufo Guidotti che sull’artista ha scritto una monografia e dal figlio di Saverio, Andrea Ungheri che da 12 anni cura e tiene in vita la memoria artistica e umana del padre.

Saverio Ungheri è uno dei tanti fenomeni calabresi. Uno dei tanti che se ne dovette andare per creare (in questo caso) la sua arte, ma che alla Calabria (era nato a Rizziconi, provincia di Reggio, il 26 febbraio 1926) era sempre rimasto legato. Frequentò, un po’ su imposizione dei genitori, il liceo classico a Cittanova. Ma il suo carattere creativo e ribelle lo portava a cercare altre vite fuori dagli schemi che la sua famiglia aveva pensato per lui. Così, approfittando del servizio militare, se ne andò a Roma dove riuscì a frequentare con successo il liceo artistico. Nella capitale lavorò come disegnatore tecnico e docente di Storia dell’Arte in diverse scuole. Alla fine degli anni ’50, con Sante Monachesi, David Grazioso e altri, fondò la corrente dell’“Astralismo” ispirata dalla conquista dello spazio da parte dell’uomo: dagli Sputnik fino alla conquista della Luna nel 1969.

Da lì, il suo percorso nell’arte e anche oltre, proseguì con la Bionika collegata all’idea che gli oggetti possono essere rappresentazioni efficaci di quello che abbiamo dentro: «E dentro – diceva Ungheri – abbiamo principalmente cuore e polmoni. Io ho cercato di tirarli fuori per quello che sono e quello che rappresentano. Così è nato il Polmone pulsante». Insomma, il senso intrinseco, fisico e spirituale dell’uomo. Riproducendo il respiro, l’artista arriva il più vicino possibile alla creazione o a una buona metafora di essa.
Scendi lungo Salita del Grillo, pieno centro di Roma, due passi dal Mercato di Traiano e “Il Polmone pulsante” te lo trovi sulla sinistra. Al numero civico 21 del cinquecentesco palazzo Venier. Una porticina, una scritta, sembra quasi uno scherzo o un gioco. Ma entrando, quando c’era Ungheri, trovavi quest’uomo piccolo e gentilissimo, la barbetta mefistofelica, che ti mostrava i suoi meravigliosi giocattoli. Insieme, anche lei affabilissima, la moglie, Teresa Nasso, mancata pochi mesi prima di Saverio.

E da lì partiva una visita surreale. Eri nell’antro di un diabolico meccanico che, però, costruiva oggetti che sembravano giocattoli per bambini dei tempi quando c’era il “Meccano”? O nelle caverne al piano di sotto dove sembrava di essere vicini a Porta Inferi, si aggiravano (non credendo ai loro occhi) i fantasmi degli antichi romani?
Ma in realtà, ti trovavi nelle fondamenta dell’antica chiesa di San Salvatore delle Milizie chiusa nel XVI secolo. I muri antichi delle stanze che si susseguono una dopo l’altra fino a dare la sensazione del labirinto, sono medioevali e in parte anche romani: qua i segni di un antico lavatoio (e sotto scorrono ancora acque sorgive che finiscono nel Tevere), là i resti di un affresco che ornava la facciata della chiesa o un archetto che, forse, ne sovrastava un ingresso. In mezzo, alle pareti o contro i muri diseguali ecco i pezzi di una collezione piovuti da un altro pianeta o, forse, dalla parte di questo che meno siamo capaci di vedere: quella che sta dentro di noi.

In mezzo a una delle “sale” (o forse andrebbero chiamate “grotte”) il polmone pulsa e sbuffa. È fatto di parti metalliche che sembrano rubate a un robivecchi, di membrane in gommapiuma di non chiara provenienza. Intorno e in giro, altre “statue”: alte, dalle gambe filiformi. C’è una mantide religiosa, un “Guerriero” pieno di lampadine, un minotauro cornutissimo e quasi impellicciato, un “Moloc” spaventoso e “Guerrieri robot” di diversi colori, una Base lunare e un Lem (l’unità su cui l’uomo scese sulla Luna) rosso. Sono opere del periodo dell’astralismo e della Bionika. Ma alle pareti ci sono diversi quadri che rivelano la mano di un grande pittore astratto: “Dipingevo perché nella nostra casa c’erano panche e sgabelli, ma le pareti erano nude. Così creavo tele per coprirle”.

E al piano di sopra, Ungheri continuava a creare pezzi di quella che ormai aveva definito “Artigianal Art” (Art Art). Sul suo tavolo ingombro di attrezzi, legno, parti metalliche, stoffe, gommapiuma nascevano i guerrieri e minotauri. Ci potevi vedere qualche pezzo incompleto, qualche “burattino” seduto in attesa di una rifinitura o di un “vestito” e inevitabilmente (sapendo che il paragone non l’avrebbe offeso) finivi a pensare a Mastro Geppetto. Un altro che, in fondo, si è trovato per le mani un pezzo di legno parlante e semovente. Forse, qualche volta, anche Saverio Ungheri avrà pensato o sperato che i suoi oggetti, rappresentazioni sublimi della vita, prendessero davvero vita.

Molti dei “pezzi” in mostra in Salita del Grillo, sono adesso raccolti a Palazzo Merulana. E grazie all’insieme di quadri, sculture e strani oggetti, il professor Romoli Barberini è riuscito a farci “leggere” i diversi momenti della vita artistica di Saverio Ungheri. Una vita che cambia, si contraddice, mostra la potenza della pittura, ma poi la trasferisce in una strana arte tra il meccanico e l’artigiano. Eppure, Saverio Ungheri, parlandone, non rinnegava niente o quasi di quello che aveva fatto. La sua “metapsichica” partiva sempre da quello che aveva dentro, pensava, sentiva, magari soffriva.
E se da dentro, attraverso le sue mani poliedriche, usando come strumento un pennello o un cacciavite usciva un dipinto o una specie di mostro dal respiro lungo e roco, dietro c’era sempre l’artista. C’era Saverio Ungheri, con la sua vita poliedrica, le sue ribellioni, il suo desiderio di creazione che, in fondo, è il più alto dell’uomo.

Poi, ma questo rientra nei ricordi personali, c’era il Saverio vicino di casa, con la sua dolce Teresa e i figli Andrea, Mauro e Antonella, che ci mise qualche anno a dirci chi era e quale livello aveva raggiunto la sua arte. E anche quando ce lo disse, lo fece con una sorta di delicata ritrosia e un sorriso disarmante.

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