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Un minuto a Ellis Island
Ho mollato tutto e sono andato. A Ellis Island. Su questa minuscola isoletta mezzo artificiale nella parte alta della baia di New York, c’è un edificio affatto brutto; anzi: col suo stile art nouveau, o liberty che dir si voglia, è addirittura grazioso. A vederlo ora non evoca le immagini di miserabile umanità che ispirano gli attuali hot spot e i centri di accoglienza europei. Eppure tra il 1892 e il 1954 da qui sono passati – alcuni respinti – più di 12 milioni di persone che sognavano una vita migliore in America. Tantissimi italiani.
Leggere quei nomi commuove.
Un minuto a Ellis Island basta per capire che nelle emigrazioni c’è qualcosa che le accomuna tutte, qualunque sia il motivo che spinge o costringe un essere umano a lasciare la propria patria per cercarne un’altra: è quel qualcosa che riduce l’umanità a una briciola. Allora come oggi.
Dall’Europa alle Americhe, dall’Africa all’Europa, dal Sud al Nord; da Oriente a Occidente: c’è sempre la vita messa in gioco, messa a nudo, umiliata. A volte perduta.
Ellis Island, con il suo Museo dell’Immigrazione è un monumento alla memoria. A perenne ricordo delle lacrime di chi parte perché costretto a partire. Attira ogni giorno migliaia di turisti, gli stessi che si fermano a Liberty Island per salire sulla statua della Libertà.
Dovremmo costruire anche noi un mausoleo per ricordare chi tenta di arrivare in Europa. Perché emigrare è un dramma sempre. E per chiunque.
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