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Appena laureato, decisi – con poca originalità, come per la scelta degli studi intrapresi – di andare a Londra: solo per mollare tutto e «vedere l’effetto che fa» a starsene nella grande società. Ero il primo, in famiglia, tra fratelli, cugini e cognati, a laurearsi; e ciò faceva di me una (relativa) rarità; o quantomeno una novità. E nel partire mi era sembrato che tutto ciò che mi servisse, o che mi sarebbe bastato, fosse la sicurezza che quella laurea mi dava: via legami, radici, relazioni, pettegolezzi di paese e controllo sociale.
Pregustavo il giorno in cui, al culmine del successo, sarei diventato blasé allo scintillio delle vetrine di Oxford Street e alle insegne luminose di Piccadilly Circus.
Ma prima di entrare in casa della persona che mi avrebbe dato in affitto un appartamento in condivisione con una certa Melina, il proprietario (che proveniva dalle mie parti, me la sono proprio cercata!) mi disse, a mo’ di avvertimento: «io, a te personalmente, non ti conosco, conosco tuo padre e so che è persona onesta e per bene…» eccetera, eccetera… Cose sacrosante, frasi di rito, espressioni scontate. Che però furono una batosta.
Non solo alla mia autostima, ma all’idea che mi ero coltivato a proposito del rapporto sbilanciato tra la metropoli e il paesello.
Intanto, lì, in piedi davanti a quella casa con le bovindo, nel distretto di Clapton, a centinaia di anni luce da Joggi e il suo (di mio padre) orto, quell’uomo con le scuole basse, un lavoro da operaio, la sua reputazione immacolata e pochi viaggi (se non quel breve tentativo di emigrazione in Svizzera), si era dimostrato immediatamente e infinitamente più importante di me, della mia cultura e delle mie sicumere.
Ma a bruciare di più fu, credo, il fatto che mentre stavo per entrare nella vita quotidiana della metropoli europea più all’avanguardia, dove puoi fare tutto quel che vuoi tanto nessuno ti conosce, qualcuno mi tenesse sulla soglia a ricordare i miei legami con una comunità dove tu sei tu e ognuno sa chi sei e chi è tuo padre e chi era il padre di tuo padre e via all’indietro finché c’è necessità e memoria.
Non ero ancora entrato in quella che i sociologi chiamano “società” (nella accezione di Ferdinand Tönnies) che la “comunità” dalla quale provenivo si era imposta con frustrante prepotenza.
Ora, che un po’ di anni sono passati, le parole di Tönnies mi suonano più gradevoli. «La teoria della società riguarda una costruzione artificiale, un aggregato di esseri umani che solo superficialmente assomiglia alla comunità, nella misura in cui anche in essa gli individui vivono pacificamente gli uni accanto agli altri. Però, mentre nella comunità gli esseri umani restano essenzialmente uniti nonostante i fattori che li separano, nella società restano essenzialmente separati nonostante i fattori che li uniscono».
Non ho fatto in tempo ad avere successo ed assuefarmi alle magnificenze della City (dove nel frattempo mi ero trasferito a King Road, a condividere una stanza due metri per due con tante cianfrusaglie, in casa di un accumulatore seriale): sono tornato a casa.
Ma va bene così: è infinitamente meglio stupirsi e entusiasmarsi per ogni piccola cosa che diventare indifferenti anche alle più grandi. E poi, «Il (vero) successo – come diceva Winston Churchill – è l’abilità di passare da un fallimento all’altro senza perdere l’entusiasmo»… Più o meno.
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