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Una volta le notizie dei suicidi finivano in basso, nelle pagine dei giornali: poche righe per dare conto dell’ “insano gesto”, perché – si diceva nelle redazioni – il suicidio è un fatto privato. Ora, sempre più spesso, la notizia sta in alto, nella pagina, e con uno spazio di rilievo. Segno che togliersi la vita è diventato un fatto sociale. In verità lo è sempre stato: l’antropologo francese Émile Durkheim sul tema ha prodotto un classico della sociologia, definendo diversi tipi di suicidio (tutti con cause “sociali”) tra i quali: “egoistico”; “altruistico”;  “anomico” – tipico delle società moderne, influenzato dal ciclo economico: il numero dei suicidi aumenta nei periodi di sovrabbondanza come in quelli di depressione economica -; e “fatalista” – ovvero influenzato dal dispotismo morale esercitato dalle pressanti regole sociali: essere ricco o comunque realizzato, possedere, dominare, apparire, essere etero, coniugato e fedele, sedentario e radicato, credente, eccetera eccetera.
In ogni caso, il suicidio può intendersi come la realizzazione della massima libertà; come l’estrema determinazione di chi ha deciso di “mollare tutto”. Ed è proprio per questo che mi sembra paradossale che chi sia capace di arrivare a tanto – di concedersi tanta libertà, intendo – non decida di esercitarla per realizzare il sogno di ogni essere umano: “rinascere”; almeno un’altra volta.
Pensate: lasciare tutto. Le chiavi nella serratura della porta; attaccate al cruscotto dell’auto; le luci accese in casa; il computer che va; il pranzo nel forno e i figli a scuola. E invece di spararsi un colpo alla testa o di legarsi un cappio al collo: sparire. Via, come se il grilletto fosse stato premuto o la corda si fosse tesa. Socialmente morti.
Forse il dolore per parenti e amici sarebbe uguale (di certo un biglietto di commiato potrebbe aiutarli a farsene una ragione) ma per sé stessi sarebbe assai diverso: un’altra vita da vivere senza timore, senza imposizioni; in giro per il mondo o solo in giro per l’orto… mentre quelli di “Chi l’ha visto?” fanno appelli e ipotesi a destra e a manca. 
Se si è disposti a morire per propria mano – dico io – che paura può fare poi il cancro? Un incidente d’auto? Una guerra? Nessuna: via per sempre l’angoscia della malattia, la paura della morte; via le assicurazioni sulla vita e l’assistenza sanitaria; i contributi per la pensione e le tasse sulla casa; il mutuo e tutto il resto. Se sopravvivi alla volontà di ammazzarti, ogni giorno è un giorno guadagnato. E quel che resta da vivere è vita incredibile, aperta a tutte le possibilità; con una sola limitazione: abolire il verbo “desiderare”. L’aspirazione, il desiderio sono sì la benzina del progresso, ma sono anche l’infiammabile materia di cui sono fatte la delusione, la frustrazione, la depressione. Maglio soffrire di cattiva digestione che di ambizione.
Insomma, volevo dire, che c’è modo e modo per mollare!

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