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La vita è troppo breve e Proust troppo lungo (Anatole France)
Il Calendario della Cornacchia (in attesa dell’Avvento) giorno 17
Era la fine di novembre quando tornai a casa (casa è Rossano, dovunque io abbia vissuto, abitato o abiterò, casa è sempre stata Rossano). Tornavo da sconfitta.
Una disastrosa relazione, finita come era iniziata, a schifio. Un lavoro che avevo abbandonato pur nella certezza dell’epoca che fosse l’unico che mai sarei stata capace di fare. La fuga da una città, Roma, in cui non riuscivo più ad abitare. La schiena spezzata. Letteralmente.
Gli ultimi 20 anni circa di esistenza chiusi in un paio di scatole, che dopo un po’ feci nascondere in soffitta. Senza neanche aprirle (ancora oggi molte sono chiuse).
Scoprii una città che non ricordavo, che non vivevo da mai. Il giornalaio sotto casa, il bar. I vecchi sui gradoni. Gli scansafatiche ciondolanti sulle vespe. Il Comune con le sue orride veneziane rosse. Il Ciglio della Torre a due passi. Così vicino e così incompreso. Il Traforo, che ancora non era diventato un tripudio giallo- rosso.
Mi misi a camminare. Porta dell’acqua. Il vecchio macello. Il mercato. San Marco e la Panaghia. Gli Steri e la Torre dell’Orologio. I vecchi, di nuovo, seduti però sui gradoni del palazzo delle Poste. La Cattedrale, vista dall’alto. In certi giorni di azzurro, il verde dorato della cupola e il bianco delle mura ti danno come l’idea di Grecia. Il vecchio carcere. Le scalinate. I “buongiorno avvocà”, titolo acquisito per osmosi familiare poi diventato un generico “dottorè”.
Il mare. Ancora non c’era il nuovo lungomare, era tutto più selvaggio, rustico. Desolato. Forse più vero, di sicuro più mio. Passavo le ore a gironzolare sulla spiaggia deserta. Stavo molto da sola, del resto neanche oggi sono quella che si può definire una compagnona. Ho solo imparato a gestire la mia misantropia, con una certa abilità, tra l’altro. Tra un giro e un pianto arrivò Natale. E io, qualunque cosa mi succeda, adoro Natale.
In fondo nasceva una vita che avrebbe cambiato le sorti del mondo. Poteva più modestamente rinascere anche la mia.
“Vi è in ogni biografia un punto di rottura, un prima e un poi. Vi è in tutte le narrazioni una perdita di equilibrio: può accadere che qualcosa irrompa o che, come nel caso di queste 14 storie, svanisca“. Questo mi ha fatto innamorare di Svanire di Deborah Willis (Del Vecchio editore) una raccolta di 14 storie che Alice Munro ha definito “stupefacenti”. Il filo rosso di ogni racconto è una sparizione, o meglio lo sparire, in senso lato. Che sia una persona fisica (la prima storia parla della scomparsa di uno scrittore di teatro), la mente (una storia parla di Alzheimer), le speranza (una giovane donna resta paralizzata dopo un tuffo in mare), la fiducia (una donna insegue le “tracce” del marito fedifrago). Quattordici storie giocate sul filo dell’ambiguità. “I personaggi di queste storie sono come ancorati a un evento incancellabile: un vuoto con il quale camminano, respirano, convivono”. Io, quel vuoto, l’ho riempito. Qualcosa è andato altrove e non è un male.
Quando si è malinconici a vuoto, niente può far girare la ruota come un po’ di sana e burrosa sfoglia con mele e frutta secca.
Lo strudel, la soluzione. La ricetta, è lunga una Quaresima e noi siamo ancora all’Avvento, la trovate qui
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