7 minuti per la lettura
Come stai? Sto come un papa! Dici che papa? Pio IX. Ma Pio IX è morto! Lo so, ma armeno non se sente sta puzza de fritto (Gianni Livore alias Corrado Guzzanti)
Cuddurieddri io non lo so dire. Nonostante gli anni di permanenza a Cosenza e nonostante le prove fatte davanti allo specchio. Il dittongo “dj” sul finale, non mi viene.
Mi si arrota la lingua. Quindi mi sono arresa a chiamarli cullurielli (termine in realtà usatissimo anche se osteggiato dai custodi del cosentino vero, i puristi difensori del dialetto). Quale che sia la pronuncia sono buoni. Ma che dico, divini.
A San Marco Argentano, poi, ho scoperto si chiamano “cosi frittia“. Poesia. Mai nome fu onomatopeicamente più perfetto.
In una mia personalissima classifica, in assoluto i più buoni mangiati sono quelli fatta dalla mamma di Antonio, un mio collega. Li portò in redazione un anno. Come arrivarono, sparirono.
La ricetta, pur mantenendo una base uguale per tutti (patate, farina, lievito di birra) nelle dosi varia da paese a paese, di casa in casa, ma che dico, di stanza in stanza! Questo perché la tradizione è orale. E’ tutto un “ad occhio“, “farina quanta ne riceve“. Un incubo per una non-cuoca mangiatrice come me.
Sono dolci tipici della tradizione natalizia del cosentino, ma non delle parti mie.
Il loro giorno è l’8 dicembre. Sì, domani. Sì l’Immacolata Concezione. Sì, le primarie del Pd. Sì, il giorno in cui si fa (dovrebbe) fare l’albero.
Anche se, stando alla home di fb, quest’anno ci si è dati da fare con largo anticipo. Con alberi e fritti.
Foto su foto di dorati, morbidi, frittosi cullulielli ovunque. Per empatia a un certo punto ho cominciato a puzzare di fritto anche io. Mi sentivo impregnata.
La foto che mi ha strappato il cuore, quella che apre il post, è stata caricata da Carla Monteforte. Te lo mangeresti quello scatto.
Io adoro quelli con l’acciuga. Simone s’innamorò di quelli del bar Cellini ad Andreotta. Se siete in zona, andateci. Fidatevi.
(Tiziana mi ha appena scritto che li stanno facendo, è scesa una lacrimuccia, fritta)
Nel pomeriggio ho discusso anche con mia mamma che li ha confusi con i nostri scoratelli, che sono però altra cosa, di cui vi parlerò. Una cosa straordinaria. Sempre di roba fritta si tratta e con un buco al centro, ma senza patate, poi si fanno come buon augurio, quando c’è qualcosa da festeggiare.
Una buona novella in frittura espansa.
Io vi do una ricetta con dosi, ma come vi ho detto la “vera”, l’originale è fatta con l’esperienza
Ingredienti
1 k di farina
500 g di patate
45 g di lievito di birra
45 g di sale
olio di arachidi
Per uno di quegli strani giri che fa la mia testa alla parola cullurielli ho immediatamente legato “E morì con un felafel in mano” (Fandango edizioni). Un libro di qualche anno addietro. Fu definito l’anti-Friends (la serie tv). John Birmingham, l’autore, ha raccontato, con feroce sarcasmo, dieci anni di vita precaria (come lo capisco, signora mia) e di convivenza con ben 89 inquilini. Il tutto passando per varie città australiane. Da Canberra a Brisbane, da Melbourne a Sidney.
Una vita fatta di lotte estreme per i turni nel bagno (ho vissuto in un collegio, so che vuol dire), per la televisione. Tra cartoni di pizza e panni sporchi e avendo come contorno il lamentoso coro di ragazze che friniscono snocciolando racconti riguardanti i loro ex. Il libro si apre con una morte: un inquilino (senza nome) tira le cuoia all’improvviso. Lo troveranno con un felafel in mano. John ha un solo momento di cedimento nella sua vita precaria, quando si iscriverà alla facoltà di Giurisprudenza. Durerà poco. Un libro dalle battute fulminanti. Regalatevelo, se ancora lo trovate.
ps un regalo nel regalo (Annagiulia, è per te)
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA