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Ci hanno chiamato Generazione X, Bamboccioni, e in ogni altra maniera che rendesse il senso di una generazione apatica, confusa e frustrata. È vero: lo siamo. Ma siamo soprattutto sfigati. Arrivati al punto in cui tutte le generazioni precedenti, e forse anche le successive, tiravano (e tireranno) le somme di bilanci positivi; noi siamo ancora qui a far quadrare conti che non tornano. Siamo cresciuti con un modello in testa – quello dei nostri genitori, i baby boomers, che hanno avuto la possibilità di ricostruire un mondo azzerato da una guerra mondiale; che hanno studiato, lavorato e emesso su famiglia con una impressionante regolarità sociale – ne abbiamo sperimentato un altro, con identica sorprendente regolarità, nel momento in cui sarebbe toccato a noi essere adulti e genitori: il modello dell’attesa del primo impiego, del matrimonio consapevole e dei figli al primo barlume di stabilità economica.
«Studia, impegnati, ché quando sarà il tuo momento ti sarà dato, riscuoterai i tuoi crediti» mi dicevano. Ed io dicevo sì, per originalità; perché mi pareva che a noi – intendo noi come generazione – non ci spettasse il compito di contestare visto che, mi dicono, lo avevano già fatto loro.
Ma ora, nonostante la fila sia ancora molto lunga, ho come la sensazione che sia arrivata l’ora di pranzo e l’impiegato abbia chiuso lo sportello dei rimborsi. Così ci ritroviamo, una generazione intera, come se qualcuno avesse velocemente spostato le lancette e ci avesse fatto saltare due lustri: precari a quarant’anni, fidanzati da venti e statisticamente sterili. È vero: gli scienziati della riproduzione stanno cercando di spostare avanti di qualche anno il limite ultimo della fertilità e vedi gente, per strada, stremata dal sesso mirato e funzionale o le liste di attesa per avere una fivet o la crioconservazione degli ultimi singulti di fecondità.
Eccoli: già li vedo, quelli che si chiamano fuori… «Be’…io, in verità ho fatto tutto: sono stabilizzato, sposato e con figli…».
E, soprattutto, vedo gli altri: la Generazione Y. Laurea breve («ma non mi chiedere, non mi ricordo niente»), co.co.co cronico e cosciente, e un figlio abbandonato in carrozzina che smanetta con l’iPhone. Ecco cosa significa fare tesoro dell’esperienza (della generazione precedente).
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