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Alda Merini scriveva i numeri di telefono su una parete, quella dietro la testata del letto. Ne aveva infiniti. Lo chiedeva a tutti, il numero. Amici o visitatori casuali. E chiamava a qualsiasi ora del giorno e della notte. La notte, soprattutto.
Aveva due telefoni, un cordless, bianco e uno fisso, attaccato al muro, grigio. Sola, non voleva sentirsi sola. Ora, quella parete è stata “staccata” e trasportata nella casa museo, di via Magolfa, a Milano. E’ ancora imballato, il suo “muro degli angeli”.
Due giornalisti di Repubblica hanno iniziato a digitare quei numeri sulle tastiere dei loro telefonini. Per scoprire quel mondo di relazioni. Il mondo via cavo dell’Alda. Io i numeri li scrivo a casaccio su fogli. Quelli che mi capitano a tiro. Quando lavoravo, o meglio, quando avevo un posto fisso di lavoro, riempivo di numeri svariati fogli riciclati. A volte passavo intere giornate a cercarli, sfogliarli cercando di capire a chi appartenessero. Mai trovando quello che cercavo. Quando me li davano li segnavo distrattamente facendo affidamento sulla mia incostante e fallace memoria. Che puntualmente falliva. Infatti poi non riconoscevo più loro un nome, un volto. Alda li ricordava invece. Cornetta in una mano, sigaretta in un’altra. Lì sul letto, seduta a sentir voci, a ricostruire fatti.
Dovessero trovare quel tesoro inutile dei miei numeri, risponderebbero, quasi sempre, corrispondenti di vattelapesca con pezzi su improbabili sagre.
Ora i miei numeri senza nome li ho nella memoria del cellulare.
Driin, squillo “Senti allora…per quella cosa” “Ehm sì?” “Ma non mi hai riconosciuto?” “Certo, caro, dicevamo, quella cosa…”
“E fui soltanto un’isterica”.
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