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Mi deprime quando le isoterme e le isòtere non si comportano a dovere; quando la temperatura dell’aria non è in rapporto normale con la temperatura media annua, con la temperatura del mese più caldo come con quella del mese più freddo, e con l’oscillazione mensile aperiodica.
Ecco cosa mi manca di più: la certezza delle stagioni. E non lo dico per via della schizofrenia meteorologica – che pure mi fa incazzare – , ma perché non so più qual è il tempo giusto per le cose.
L’estate, per esempio; che doveva essere la stagione dell’orto. Decisamente.
Quando ero ragazzino l’estate cominciava sempre quando mia madre (eccola, finalmente) tirava fuori la mia maglietta (preferita) rossa con la frase stampata in bianco “Non consigliatemi, so sbagliare da solo”; e finiva prematuramente, sempre, con l’arrivo di una camionata di legna per la stufa della scuola che toccava a noi scolari portare dentro la classe e accatastarla sotto le letterine dell’alfabeto.
E quando la scuola riapriva, l’appello era fatto per nome poiché avevamo tutti lo stesso cognome: eravamo tutti fratelli e cugini.
Prima di proseguire devo e posso giurare che non ho, in verità, settant’anni; ma è solo che ho avuto la fortuna di cominciare le scuole elementari in una multiclasse di quartiere di periferia.
Continuo… Mio cugino A rispondeva alla chiamata in pigiama; e qualche volta – mi pare di ricordare – credo che lo abbia fatto dal letto. Poi faceva colazione e infine varcava la porta che divideva la classe (una stanza presa in fitto dal Comune) dal resto della casa dei miei zii. 
Per la ricreazione andavamo per boschi, anche  a funghi; e al bagno ognuno a casa propria: ché mia zia non sopportava che tutti i bambini del quartiere andassero a pisciare nel suo gabinetto.
De Rose, che chiamavamo per cognome perché era l’unico ad avercelo diverso, arrivava spesso in classe con qualche uccellino preso con la fionda.
Ri-giuro: non sto scopiazzando da “Cuore” di De Amicis.
Questa introduzione, che – comprendo – è inutile e mi fa somigliare a una specie di Enrico Bottini, è solo per dire che a quel tempo l’estate era l’estate; stabile con le sue temperature e le sue date; con la sua ebbrezza di libertà ad orario: alle quattro del pomeriggio mio padre tornava dal lavoro e si andava tutti in campagna (tutti si fa per dire: gli sfigati eravamo solo noi mentre gli altri cugini continuavano a giocare alla radio, all’autosalone e al dottore…).
Ora, così, non si capisce più niente: non so quando comincia l’estate e quando finisce; non so se oggi sia il caso di andare ad annaffiare i pomodori, ché potrebbe piovere domani.
So solo che ora vorrei, io, essere ogni giorno nell’orto alle quattro. E ora come allora ho ancora una maglietta preferita per ricordarmi che è estate: è nera e sopra c’è scritto: “Joggi Avant Folk”. E non la tolgo nemmeno se nevica il 16, il 17 o il 18 agosto.

Ps: grazie a Musil per l’incipit preso (quasi) a prestito.

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