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In Italia si celebrano ciclicamente (almeno questo), più o meno con varie sfumature di enfasi, le varie stragi (quasi tutte impunite) che hanno attraversato il nostro Paese. Il periodo più intenso è durato 15 anni, dal 1969 (strage di Piazza Fontana) al 1984 (strage di San Benedetto Val di Sambro). Un Paese insanguinato nella logica del terrore, con questo bilancio: 11 stragi, 150 morti e 652 feriti. Accanto alle stragi ci sono state le tentate stragi. Ovvero quelle situazioni in cui solo il caso ha voluto che non ci fossero morti. Ma l’intento era quello di ammazzare. Con motivazioni quasi sempre politiche, direttamente o indirettamente. Come appunto quelle che hanno ispirato la lunga notte dello stragismo italiano. La vicenda che qui si ricorda è di 30 anni fa. Un triste anniversario. Una tentata strage. E’ la notte tra il 17 e il 18 marzo del 1982. In una delle banlieue catanzaresi accade un’ esplosione nel nascente rione Corvo. Era passata da poco l’una di notte che al secondo piano di una palazzina di via Bezzecca esplode una bomba ad altissimo potenziale distruttivo. L’ ordigno era stato poggiato sullo zerbino dell’appartamento della famiglia Ledda. Marito, moglie e due figli piccoli colti nel sonno. La famiglia Ledda doveva, per gli ignoti attentatori, scomparire dalla faccia della terra. Il capo famiglia è un consigliere regionale del Partito comunista italiano, Quirino Ledda. Un uomo combattivo, abituato a denunciare pubblicamente le ingerenze della mafia nelle vicende del lavoro e a smascherare gli imbrogli laddove si annidano avendone egli contezza. Ce n’è abbastanza per farlo diventare un bersaglio facile da colpire. I suoi comizi lasciano il segno. Dunque, con la possibilità di raggiungerlo ovunque. La mente dell’attentatore, tuttavia, si fissa sulla modalità dell’agguato che possa lasciare agli altri un preciso messaggio di paura. A casa della vittima, non altrove. Per dimostrare potenza e impunità. La bomba fu una sorpresa per la sua inaudita violenza e per le modalità con cui fu collocata. Nottetempo, un classico noir. Fu chiaro sin da subito agli inquirenti che l’ ordigno arrivava da fuori. Ideato e confezionato altrove. Lontano da Catanzaro. Forse nel Vibonese, forse nel Crotonese, forse sullo Ionio Catanzarese. Chissà. Le indagini – di “routine” – non portarono a nulla. E oggi, come simbolo di quel dramma, resta la moglie di Ledda seduta su una sedia a rotelle. Con tutto quello che si può immaginare, con quello che ha patito la famiglia in questi decenni. Una ferita mai rimarginata, un dolore mai ricomposto, un ricordo sempre presente. Quella vicenda si ritrova nelle cronache del tempo. Scrisse il giornalista Roberto Scarfone sulle pagine di Paese Sera: «I bambini, il primo pensiero della moglie è per i due figli che dormono nella stanzetta poco lontano dall’ingresso. Terrorizzati, abbracciati l’uno all’ altro, coperti di calcinacci e schegge degli infissi, sono salvi. Gli inquirenti non hanno dubbi: volevano massacrare tutta la famiglia. Una bomba ad altissimo potenziale – un chilo di dinamite – è stata fatta scoppiare nella notte di ieri sull’uscio dell’appartamento di Quirino Ledda, consigliere regionale del Pci, già segretario regionale della Federbraccianti». Il partito si stringe attorno a Ledda. Gli manifesta solidarietà, affetto, gli offre protezione. Ugo Pecchioli, “ministro degli Interni” del Pci, gli propone di riparare all’ estero per un po’ di tempo. In Ungheria. L’interessato però rifiuta. Per dovere di militanza, per orgoglio, per fatalismo. Ledda è sardo, quindi ha la testa più dura dei calabresi. La sonnecchiosa classe politica calabrese ha un sussulto e, a sua volta, si stringe attorno a Ledda. Lo stragismo aveva tanti volti. E tanti sbocchi, anche nelle periferie nascoste. Il caso Ledda rientrava nella casistica male valutata della ‘ndrangheta nostrana, allora poco conosciuta, sottostimata, ma già capace di superare i confini provinciali e agire secondo un disegno criminale di sodale alleanza tra i nuclei delinquenziali sparsi in ogni dove. Anche nella “quieta” Catanzaro. Perché non c’è dubbio che gli attentatori avessero dei basisti nel capoluogo. E’ ancora Scarfone a descrivere quel quartiere anonimo che stava venendo su come novelli dormitori. «Siamo – scrive il giornalista di Paese Sera – nel quartiere Santa Maria, alla periferia di Catanzaro. Dove prima c’era un pezzo di campagna acquitrinosa le cooperative hanno creato un “satellite”, un pezzo di città sorta nel giro di pochissimi anni “Corvo”. Scherzosamente i catanzaresi chiamano il rione “Cremlino”: al “Corvo” infatti abitano deputati della sinistra, sindacalisti, dirigenti di partito e degli organismi di massa».
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