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…e da qui non si vede granchè ma deve essere strada
Mentre fuori piove un lunedì qualunque e a casa è giorno di festa, fiori, telefonate, tortae (paradiso e veleno, zucchero e sale) De Gregori mi canta nelle orecchie. Canta per me. E dicono (sempre ) che è finito, ma lui torna (sempre). E canta per me.
Bruciano quelle cinque lacrime sulla mia pelle.
E c’è un sergente innamorato che se ne va. Lacrime e saliva. Un preascolto, il secondo della mia vita. Dopo Tom Wolfe. Il primo è giro è distratto. Mia madre, che nasceva oggi, parla mentre ricama e io sono a casa per lei e le devo attenzioni. Al secondo è lui. Una vertigine. Un filo di pelle d’oca. Mi perdo. Mi frega. (Sempre). Tutto il mondo fuori. Che Vasco di Albachiara è (sempre) un miraggio da considerare. Perchè all’alba di una mattina di una vita fa, ero in spiaggia, con mia mamma, facevo fisioterapia dopo il primo doloroso tragico intervento al ginocchio. Non c’era quasi mai nessuno a quell’ora, e io non volevo nessuno mi vedesse sofferente zoppicante (povero cuore come un povero scemo) con quell’aggeggio che mi consentiva di camminare. Da lontano, lo vidi. Bianco. Il panama, la camicia di garza. I pantaloni. La barba (rossa, di un tempo sbiadito). Nei luoghi più impensati puoi trovare un bellamore che conosce le lacrime e le sa consolare. Arrancai. Scivolai nell’acqua gelida, lo Ionio non concede sconti a nessuno. Piangevo e nuotavo. Chiese a mia madre. Mi salutò da lontano. Ma rimase lì. Mi è rimasto negli occhi tutti quel bianco. L’aria sofferente. Lessi dopo che quelli erano gli anni difficili.
E guarda che non sto scherzando, guarda come sta piovendo, guarda che ti stai sbagliando, guarda che non sono io
Come sono contento fuori si sente il mare
anche se è tutto scuro e non si può vedere
Tu mi guardi negli occhi e io non so dove guardarti
stasera sono un libro aperto mi puoi leggere fino a tardi
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