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Che ci faccio qui? (Bruce Chatwin)
Di nuovo in viaggio, per un posto dal quale già so che ripartirò. Per tornare a casa, da dove, comunque, (ri)spiccherò il volo.
Dopo anni di brutale stanzialità, la zingara che è in me è tornata prepotente protagonista. Con lei, il nomadismo.
Vantaggi della precarietà (vedere il bello dove altri vedono il nulla è stato sempre un mio pregio). Libertà a basso costo.
E parto da una terra, dove viaggiare, è un atto di fede e un terno al lotto. Contemporaneamente.
Mulattiere con la pretesa di strade statali (sorvolo sulle super), A3 e basta la parola, ferrovie in disuso, aeroporti non da tutti di facile raggiungimento. Insomma, molti noi ancora si viaggia in pullman.
Praticamente pure i rumeni hanno scoperto i vantaggi dell’aereo. Noi no.
Ci suchiamo ore e ore di viaggio stipati come sardine in scatole di latta. Colorate, a loro modo pure comode .Ma pur sempre scatole. Film incluso e sosta forzata.
Ci suchiamo ore e ore di viaggio stipati come sardine in scatole di latta. Colorate, a loro modo pure comode .Ma pur sempre scatole. Film incluso e sosta forzata.
Manco quelli in bicicletta c’arrivano. L’italico giro, parte dalla Danimarca e si ferma un pelo prima di Napoli.
Più sotto non ci passa, forse gli ci puzza. Del resto è noto che anche Cristo s’addimorò a Eboli. Non oltre.
Eppure io viaggio. Per tanto tempo ho vissuto in una città che non ho amato, per un lavoro che invece ho molto amato.
Ho pensato che stare ferma in uno stesso posto fosse segno di maturità. L’aver messo la testa a posto.
Aver adeguato lo stile di vita ai dettami dell’anagrafe. Avevo confuso la stanzialità con la stabilità.
Poi le circostanze sono cambiate. E sono tornata nomade. Una con la valigia. Pronta.
Magari faccio un salto a Tirana prendo una laurea e torno. Mi devo informare se c’è un pullman che mi ci porta.
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