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“Così si usa, dopo mangiato tutti a coricare. Quand’è la controra si buttano tutti nelle braccia di Morfeo, che in questo paese dovrebbe essere fatto santo Patrono e portato in processione al posto di Sant’Antonio. Io non dormo, e chi ci riesce? Nella mia testa continuano a girare domande senza risposte. Quest’ora è sacra…E’ la controra…”.
E’ la voce femminile fuoricampo che, accompagnata da un dolce sottofondo musicale di Ennio Morricone, apre “I basilischi”, il primo film girato da Lina Wertmuller nel 1963, premiato al Festival Locarno con la Vela D’Argento e ritenuto ancora oggi, da buona parte della critica, come il lavoro più riuscito della regista romana. Girato in Puglia e Basilicata, tra Minervino, Spinazzola e Palazzo San Gervaso (il paese lucano dei genitori della Wertmuller), fu prodotto da un giovanissimo Tullio Kezich e avvicinato da molti ai “Vitelloni” (1953) di Fellini. Ma più azzeccato ci sembra l’accostamento allo spagnolo “Calle Major” (1956) di Juan Antonio Bardem fatto notare dallo scrittore Alberto Moravia in una sua recensione su L’espresso”. “I basilischi” del titolo si riferiscono ai lucertoloni che stanno immobili al sole, ma vogliono reggere la metafora di esistenze che si imbattano e schiantano nell’ozio e in un’attesa senza speranza. Wertmuller filma con uno sguardo sarcastico (e che solo all’apparenza può essere pittoresco) l’indolenza della provincia Meridionale, i suoi giovani protagonisti – Tony (Antonio Petruzzi), i Sergio (Sergio Ferrarino), i Francesco (Stefano Satta Flores) – sono i vitelloni, gli Oblòmov di un Sud depresso, segnati da un’inezia fisica e spirituale che li condanna all’immobilismo, ad una perenne ed asfittica pigrizia. Un’amara commedia sulla noia e l’ipocrisia sono “I basilischi”, dove ad uscirne pesantemente sconfitta è la figura del maschio, mentre la donna (le donne) diviene la cellula forte del film: il suo attivismo, la volontà di sfuggire ad un codice precostruito e penalizzante corrisponde ad una vitalità che è l’ esatto contrario del coma in cui gli uomini lasciano inabissare le loro vite.
Nei “Basilischi” il neorealismo “è aggiornato e non sembra ignorare le risorse del cinema più moderno. La regista ha un sentimento non solo autentico ma anche violento della noia, dello squallore e dell’indecenza della vita nel Meridione e questo sentimento le fa oltrepassare il limite naturalistico”. Il film procurò molte lodi di incoraggiamento all’esordiente Lina Wertmuller (che curò anche soggetto, sceneggiatura e il doppiaggio di alcuni personaggi secondari), ma il successo popolare arrivò per lei nel 1964 grazie al “Giornalino di Gian Burrasca”, gradevole e seguitissima commedia musicale, realizzata per la televisione con una giovanissima Rita Pavone nei panni di un ragazzino incontenibile che smaschera i falsi moralismi di una società bacchettone. Per i cinquant’anni de “I basilischi” la Regione Basilicata ha organizzato per la serata del 2 agosto all’Isola Tiberina di Roma l’incontro “Travolta da un insolito destino divenni regista in un dorato grano della Basilicata” dove, prima della proiezione del film, la regista verrà intervistata dal nipote e attore Massimo Wertmuller.
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