Angelo Summa
17 minuti per la letturaPOTENZA – La Basilicata si è lasciata alle spalle da un pezzo il suo “glorioso” passato da modello di buona amministrazione e programmazione economica. Ma rischia di precipitare ancora più in basso se alle politiche di sviluppo continueranno a essere preferiti i bonus e le logiche di filiera verranno accentuate, e non ridotte, dall’alternanza politica ai vertici della Regione.
Si congeda così Angelo Summa, con un’ampia intervista per i lettori del Quotidiano del Sud, dal suo incarico di segretario regionale della Cgil Basilicata.
Segretario, come ha visto cambiare la Basilicata in questi 8 anni alla guida del più importante sindacato della regione?
«La Basilicata è cambiata soprattutto nella sua funzione di relazione. Non solo col mondo sindacale e datoriale, ma anche col mondo associativo. E’ regredita dal punto di vista della concezione di della funzione pubblica istituzionale come funzione terza, di garanzia, ma anche di elaborazione. Quindi c’è stato un indebolimento di visione programmatica, accompagnato da questa autoreferenzialità sempre più personale, che è stata il vero mutamento politico che ha reso la Basilicata meno democratica e meno liberale. E questa è, secondo me, la causa della regressione politico – istituzionale e dell’arretramento economico e sociale del suo modello di sviluppo. Quando mi sono insediato nel 2015 eravamo a metà del mandato del presidente di allora, Pittella, e c’è stata una proiezione positiva improntata al confronto. Tant’è che uno degli elementi caratterizzanti del suo mandato fu la trasformazione della carta carburante, che veniva data indistintamente a tutti, e il riutilizzo di quel 3% di royalty per il reddito minimo di inserimento. Ma dopo quella operazione si fermò il confronto ed è iniziato il decadimento a confronto con la Basilicata della metà degli anni ’90, che è stata protagonista di una capacità di visione programmatica. Come quando con l’allora presidente Bubbico si avviò il primo piano sanitario che evitò la chiusura degli ospedali e si costruì già allora una visione di sanità di prossimità. Pensiamo agli screening. Oggi abbiamo le liste di attesa, la mobilità sanitaria. All’epoca gli screening hanno svolto una funzione importantissima, la Basilicata fu una delle prime regioni che investì su questo. Questo è il quadro reale di come è cambiata la Basilicata. E gli screening non solo garantivano il diritto alla salute, e hanno salvato molte persone, ma erano anche una forma, diciamo indiretta, di contrastare le liste d’attesa. Ricordo più indietro ancora le battaglie della Basilicata partecipata e democratica, come la manifestazione di Scanzano. In questi 8 anni la Basilicata è scivolata verso questa dimensione autarchica della politica di uomini soli al comando, come se il voto le desse legittimità di non confrontarsi più con chi le ha dato il suo consenso al momento del voto e con le altre parti del territorio. Io credo che la politica debba avere una trazione diversa da questa. Si è eletti, sindaci, presidenti di tutti e non capi di partito».
Nel suo primo discorso da segretario regionale lei ha sottolineato che il lavoro si crea con “politiche industriali ed investimenti”. Ha visto qualcosa in questi 8 anni che promuoverebbe in questo senso?
«Purtroppo no, avrei voluto, ma purtroppo non c’è stato. Questo è un altro elemento pesante per la nostra regione, su cui tutti dovremmo riflettere. Nonostante la congiuntura positiva, e le tante risorse economiche, dalle royalty ai fondi comunitari, che non sono stati neanche tutti spesi. Siamo passati da una unanimemente riconosciuta capacità di spesa e programmazione degli inizi degli anni 2000 al rischio di dover restituire i soldi all’Europa. L’assenza di visione sta mettendo a serio rischio la tenuta del nostro sistema produttivo. Se avessimo programmato, se avessimo avuto una politica industriale, anche la vicenda, voglio dire, di Melfi, dell’automotive, l’avremmo anticipata. Lì abbiamo un centro di ricerca su cui abbiamo investito tante risorse che è ormai inutilizzato e con uno svuotamento di dire di addetti, di occupati. Ormai a Melfi gli occupati diretti stanno scivolando largamente sotto i 6000, dai 7000 di un tempo, e qual è il livello su cui si attesteranno è un’incognita che fa presagire un ridimensionamento molto forte. E perché? Perché non si è avuto una visione. Avremmo potuto prendere parte delle risorse delle royalty e voglio dire, lanciare una sfida con tutte le imprese attrarle nella transizione verso l’elettrico, ma anche verso il design, verso le scocche delle macchine, i nuovi materiali che devono essere utilizzati per ridurre i consumi, la ricerca, il rapporto con l’Università di Basilicata? Sono tutte cose che sono mancate a una regione come la nostra, che non è la Calabria, e ha un settore manifatturiero molto importante. Sono cose su cui bisognava agire e non si è agito, e per questo rischiamo di pagare un prezzo. Se oggi c’è ancora tutto sommato una tenuta occupazionale è grazie al ruolo del sindacato che ha fatto da solo, senza nessun ausilio della politica. Voglio ricordare la vertenza della Vibac che adesso ritorna in crisi, però a suo tempo era già chiusa e venne salvata con l’investimento sulla cogenerazione energetica. Vertenze come la Ferrosud, come la Firema a Tito. Nel mentre il Pnrr fa grandi investimenti sul ferroviario, aziende che operano in questo settore della segnaletica avrebbero dovuto già da prima, con un piano industriale, pensare a questa riconversione. Invece sono andate a delocalizzare altrove. Diciamo che il sindacato è riuscito a tenere un livello alto di protezione, ha retto, è stato su tutte le questioni. Purtroppo non siamo stati ascoltati».
Quindi ammette che la Cgil Basilicata, soprattutto negli ultimi anni, ha svolto un ruolo di supplenza di una minoranza in Consiglio regionale, quella rappresentata dal dal vecchio centrosinistra, abituata a governare più che stare all’opposizione?
«Questo credo che sia nella memoria di tutti, cioè nei fatti, negli atti e nel modo in cui si è interpretata una funzione politica. Noi sappiamo che come Cgil abbiamo cercato di difendere anche la legalità, i principi di legittimità degli atti di questa Regione. Sono stati tanti gli atti illegittimi su cui noi abbiamo svolto un’azione di supplenza, come lei dice. Penso alla nomina di Tisci (Antonio, direttore generale da settembre 2020 a marzo 2022, ndr) all’Arpab senza che ne avesse i requisiti, alla stessa nomina di Ramunno (Donato, direttore generale in carica, ndr) su cui c’è un esposto in procura. Sono state tutte azioni a tutela di quella che deve essere la legittimità e la separazione tra il potere politico e il potere amministrativo. La politica deve programmare e le nomine le deve fare nel rispetto della legge. Non con il criterio esclusivo dell’appartenenza al di sopra della legittimità degli atti. L’appartenenza ci può anche stare nella scelta, voglio dire, ma nel campo dei requisiti che bisogna avere. In ultimo voglio citare il caso recente del direttore amministrativo dell’Asl di Matera. Anche lì si sta consumando in questi giorni un’ennesima illegittimità. Pesantissima. E’ stato nominata direttore amministrativo una persona che non ha i requisiti, che prevede la legge. La legge prevede un requisito molto semplice per essere nominato direttore amministrativo in un’azienda sanitaria bisogna avere 5 anni di dirigenza amministrativa nell’azienda sanitaria. La persona che è stato nominato non ha questi requisiti e hanno utilizzato un elemento che non ha nessuna valenza giuridica, ovvero che questa persona stesse in un albo regionale del Lazio di direttori amministrativi. L’albo che ha fatto la Regione Lazio è un albo illegittimo e sarà dichiarato incostituzionale perché sono state inserite persone che non hanno questo requisito. Quindi, ecco, noi abbiamo fatto queste battaglie, queste battaglie, vere sulla sanità e il suo decadimento: dalla nomina di Barresi (Massimo, direttore generale del San Carlo di Potenza da fine 2018 ad agosto 2020, ndr) al commissariamento fatto da Pittella. Su tutti questi aspetti la Cgil ci hanno messo la schiena dritta per difendere la democrazia e difendere la legalità in questa regione».
Ma dopo tutte queste denunce che idea s’è fatto del funzionamento della macchina giudiziaria? Ci sono state anche alcune assoluzioni eclatanti, come per l’inchiesta Arpab-Fenice.
«Io ho visto quello che abbiamo visto tutti: una Magistratura, una Corte dei Conti, spesso assopita, addormentata, contigua anche al potere politico. C’è stato un cambio positivo con la nomina di Curcio alla Procura della Repubblica di Potenza, una persona di grande spessore politico che ha dato grande autorevolezza, indipendenza al ruolo della Magistratura. Come come dovrebbe essere. Purtroppo la politica cerca sempre di addomesticare la Magistratura, come sta facendo il governo nazionale. Quando si sta al governo si vuole star tranquilli rispetto agli abusi eventuali che si devono commettere. Ed oggi la Basilicata, da questo punto di vista è più protetta e più tranquilla. Grazie alla battaglia che Curcio ha fatto anche sull’istituzione della Dia. Poi c’è qualche criticità residua rispetto ad alcuni esposti fatti alla Corte dei conti, che ancora non ho ben compreso. Mi chiedo perché a oggi, su tante illegittimità abbastanza chiare, evidenziate dalla stessa Corte dei Conti, non si è ancora proceduto con gli atti consequenziali».
Sempre nel primo discorso da segretario a un certo punto lei parlò di “spesa pubblica a servita alle filiere del consenso”. Pensa che l’alternanza politica ai vertici della regione abbia rotto questo sistema?
«Assolutamente no. L’ha amplificato. Credo, e lo dico con molta tranquillità, che questa legislatura di centrodestra le risorse le ha utilizzate ancora in modo più marcato nella logica del solo consenso. Ed è un’ulteriore elemento di deriva. Le nomine all’Arpab ne sono una prova evidente, come altre nomine che sono state solo ed esclusivamente di filiera. Non si sono mai posto il problema di dare autorevolezza, qualità, competenza, spessore agli enti subregionali. Anche le nomine dei direttori generali alla regione destano molti profili di illegittimità. Io ho cercato di svolgere la mia funzione nella difesa dei diritti dei lavoratori, ma mi sono anche ripiegato tutti i giorni a leggere gli atti che la Regione faceva per una ragione molto semplice, perché dalla legalità si costruisce la democrazia, è un elemento essenziale. Quindi i profili di illegittimità degli atti compiuti da questa giunta mi sono sembrati un elemento connotativo molto più forte di quelli degli atti compiuti dalle giunte precedenti».
Il suo insediamento, nel 2015, è coinciso con gli investimenti voluti dall’allora ad di Fca, Sergio Marchionne, per la trasformazione della fabbrica lucana per antonomasia, lo stabilimento Stellantis di Melfi, per l’avvio della produzione di Jeep Renegade e 500X. Lei come si spiega che in tutti questi anni la Cgil e la sua confederata Fiom non abbiano recuperato il loro posto all’interno della rappresentanza sindacale del più importante stabilimento automobilistico italiano ancora produttivo?
«La Cgil è sempre stata al suo posto, che è al fianco dei lavoratori. Il problema è che si è compiuto un fatto gravissimo, quando l’allora amministratore delegato di Fca, Marchionne, uscì dal contratto di Federmeccanica e fece un contratto aziendale capestro, che ledeva i diritti dei lavoratori. Cisl e Uil lo firmarono, la Fiom non lo sottoscrisse e su questo assunto Marchionne ci mandò fuori. Oggi si vedono bene gli effetti di quel contratto e le sue reali ricadute occupazionali. Noi la nostra battaglia la stiamo continuando a fare, però con le difficoltà oggettive che sono scaturite da quell’accordo sul contratto dimenticando la durissima battaglia dei 21 giorni di protesta del 2004. Quando grazie alla Fiom furono riconosciuti ai lavoratori di Melfi gli stessi diritti di quelli di Mirafiori».
Ma in una situazione del genere non teme che un sindacato come la Cgil non riesca a intercettare in maniera adeguata tante esigenze di tutela da parte di chi oggi lavora all’interno dello stabilimento?
«La battaglia di reinsediamento della Cgil e della Fiom dentro lo stabilimento di Melfi è uno degli obiettivi che ci siamo posti con il precedente segretario della Fiom, Ricotta, e la nuova segretaria, Giorgia Calamita, la prima donna alla guida della Fiom. E’ una battaglia per riprendersi una giusta egemonia politico e sindacale, per ridare dignità ai lavoratori ma anche per traghettare questa fase di trasformazione che avrà impatti importanti. Credo che sia uno dei primi obiettivi che il nuovo segretario regionale della Cgil porterà avanti insieme alla Fiom”».
Il petrolio lucano vale molto in termini di pil ma al confronto ben poco in termini di occupazione. La conversione industriale è la direzione da percorrere fin da subito o si può ancora immaginare una convivenza tra l’industria delle estrazioni, destinata ad andare avanti ancora per chissà quanto, e programmi di sviluppo industriale alternativi e con un maggiore ritorno occupazionale? Magari grazie proprio ad investimenti alimentati con i profitti di petrolio e gas.
«Allora qui ci sono due elementi di valutazione. Il primo che l’attività estrattiva è impattante, non c’è dubbio al riguardo. E questo, voglio dire, è stato uno degli elementi che in trent’anni di attività estrattiva nessun governo ha affrontato in maniera adeguata. Perché dico questo? Perché l’indebolimento e l’asservimento dell’Arpab è preoccupante, inaccettabile. L’Arpab doveva essere terza, una struttura più funzionale, proprio perché abbiamo un’attività così impattante da controllare. Invece abbiamo delegato per molti anni i controlli allo stesso soggetto che gestisce le attività estrattive, e ancora oggi i livelli di controllo autonomo sono limitati. Questo è un problema. Poi credo che il governo e la transizione devono essere due punti fermi: nel senso che oggi siamo già in ritardo. Le risorse delle royalty andavano vuole dire indirizzate negli investimenti nella filiera della produzione delle energie rinnovabili. Transizione significa produrre qui i pannelli solari, produrre qui tutti i componenti che saranno nella nuova produzione energetica. Perché alla fine rischiamo di passare dalla dipendenza delle fossili alla dipendenza delle rinnovabili, e una regione come la nostra, che ha un patrimonio di risorse economiche, anziché negoziare 18 milioni all’anno di compensazione ulteriori, o quelle del gas che sono state ventilate come chissà quale grande conquista, avrebbe dovuto “piegare” l’Eni a portare qui investimenti, visto che sta facendo investimenti sulle rinnovabili in tutto il mondo per miliardi di euro. Più che di convivenza parlerei di governo dell’uscita dal fossile, che è importante perché la transizione non abbia effetti occupazionali pesanti. Perché vanno governati questi processi, ma dentro uno schema chiaro di transizione. Il rischio qual è? Il rischio di restare schiacciati dal fossile se non si assume una direzione ben precisa negli investimenti. In questo senso l’operazione che fa anche il sindaco di Viggiano, di dare altre risorse per le bollette energetiche pari a 500 euro all’anno, è un’operazione bruttissima e spero che i cittadini la comprendono fino in fondo. E’ un modo solo di comprare consenso ma non di guardare al futuro. Cioè quasi a dire alle persone che grazie al petrolio tu paghi di meno di gas e grazie al petrolio paghi di meno la bolletta energetica. Io credo che ai cittadini dovremmo poter dire che grazie al petrolio abbiamo le infrastrutture, le strade. Abbiamo la Basentana che è una mulattiera. La Basilicata è ferma a trent’anni fa. A Eni e Total si potevano chiedere investimenti infrastrutturali oltre a quelli per la transizione. Questa regione avrebbe dovuto avere le migliori connessioni sia materiali che immateriali e invece no. Cioè la domanda che mi faccio è come è possibile che di fronte a tutte queste risorse non è stato messo a valore in termini infrastrutturali nulla? Tutti sul consenso di basso cabotaggio, e i bonus. Come se sia debba restare per forza in questa condizione di povertà».
Però non dover pagare le bollette aumenta il potere d’acquisto delle famiglie. A luglio dell’anno scorso lei aveva liquidato la legge regionale sul bonus gas per le famiglie lucane come “mera propaganda” e una “marchetta elettorale”, eppure molti lucani ne stanno già usufruendo. Non si è ricreduto?
«Assolutamente no. E non perché sia cocciuto e testardo. Ma perché con i 200 milioni di euro degli accordi compensativi sul gas, 160 di Eni e 40 di Total, si poteva sviluppare un piano decennale di investimenti da 2 miliardi di euro. Sono risorse che non ha nessuna altra regione del Mezzogiorno. Io credo che dare il gas gratis a tutti indistintamente, sia una misura sbagliata, ingiusta. Che il gas gratis sia stato dato alle famiglie sotto i 40.000 euro di reddito ci sta. Ma che un professionista, un imprenditore che ha 200 o 100mila euro di reddito, che bisogno ne ha? Noi abbiamo fatto la proposta di dare il gas gratis a tutte le famiglie, lavoratori, pensionati che stessero dentro una fascia reddituale e con le risorse rimanenti alimentare un fondo vincolato per il futuro e per la transizione».
L’equivalente di un fondo sovrano?
«Esatto».
In questi 8 anni sua più grande soddisfazione e la sua più grande delusione quale sono state?
«La più grande delusione è stata quella di non aver trovato da parte delle forze politiche sia di destra che di sinistra di questa regione, quella responsabilità di aprire un confronto rispetto a una ricerca spasmodica che abbiamo fatto sulle politiche di sviluppo. Aver trovato il vuoto, questi muri di autoreferenzialità politica. E’ stata una grande delusione perché sono convinto che la Basilicata è una bellissima terra con tantissime potenzialità, più di quante ne immaginiamo se le sapesse mettere a sistema creando sinergie. La grande soddisfazione è stata quella che anche nelle battaglie forti che ho fatto, dove talvolta ho visto un’organizzazione spaventata, alla fine ho raccolto sempre il consenso e il sostegno unanime. Non era scontato, per chi conosce la storia della Cgil che è anche una storia di divisioni e fratture. Quando rappresenti un’organizzazione la cosa che più ti può far male è che le battaglie che fai non trovino corrispondenza in chi rappresenti».
Lei è stato appena nominato segretario regionale del sindacato pensionati della Cgil. Dobbiamo dedurre che si è convinto che l’invecchiamento, quindi lo spopolamento, siano ormai un destino inesorabile per questa regione?
«No, no, no. Sono orgoglioso di poter iniziare, dopo il 2 febbraio, il mio nuovo ruolo di segretario generale dei pensionati in cui sono stato eletto il 21 21 gennaio con la consapevolezza di portare a valore tutte le esperienze accumulate di questi anni in un settore importantissimo che è quello del welfare e della della sanità. Io sono convinto che così come in altre regioni, guardiamo per esempio alla struttura economica dell’Emilia Romagna, il welfare e la sanità, le politiche di inclusione hanno grande valore anche per i giovani. Noi abbiamo un miliardo e circa 100 milioni di euro di fondo della sanità di cui una parte rilevante va sulla spesa ospedaliera e poco rimane su altri settori dell’assistenza in generale e tra queste della loro autosufficienza. Pensiamo alle tante famiglie che hanno persone non sufficienti alla nostra regione e non hanno servizi. Io credo che il diritto di invecchiare a casa propria deve essere un diritto importantissimo e questo lo si fa con integrando risorse. Mi spiego meglio. Se noi investissimo più risorse nel welfare negli asili nido, nella rete socio assistenziale, in questa regione da domani mattina potremmo creare 10.000 posti di lavoro per i giovani. La povertà dei servizi che noi chiamiamo infrastrutture sociali è un problema serissimo, e anche una causa dello spopolamento perché i giovani non trovano offerte di lavoro. Se noi avessimo ha la stessa presenza di asili nido delle altre parti del paese potremmo avere il 4-5mila educatori in più occupati in queste attività. Se si implementasse l’assistenza domiciliare alle persone, agli anziani, noi potremmo avere tanta occupazione nella cura e nel benessere. Il benessere e la cura come termine, sia delle persone che del territorio, sono le frontiere future, complementari per poter creare occupazione rispetto ai settori tradizionali della manifattura».
Spesso chi l’ha attaccata, da ultimo il capogruppo di Forza Italia in consiglio regionale, Francesco Piro, le ha attribuito aspirazioni politiche. Pensa che ci possa essere la politica nel suo futuro?
«Diciamo che questo è prematuro. Nel mio futuro sicuramente c’è un continuo impegno in questo territorio. Io sono dalla parte dei lavoratori, e starò sempre da questa parte. E’ evidente che alla fine del mio mandato io potevo andare anche a Roma. La Cgil me l’aveva chiesto. Ho scelto di rimanere in Basilicata, perché sono legato a questo territorio. Ho maturato una conoscenza dell’economia sociale, della condizione materiale delle persone, dei lavoratori. Per questo voglio è una proiezione che farò con molto distacco, con molta libertà. Sono sono a servizio, non sono tra quelli che hanno smania di un ruolo. Quello che faccio lo faccio con passione, lo faccio con grande amore, quindi è tutta una pagina da scrivere».
Andrà a votare alle primarie del Pd?
«Credo di no».
Quale è la descrizione più lontana dalla realtà: quella della Basilicata “terra dei veleni”, o quella di una regione “isola felice” del Mezzogiorno?
«Credo che la Basilicata si sia lasciata il passato alle spalle e sia a un bivio da cui si deciderà quello che sarà. Potrà scivolare verso il peggio o emanciparsi e diventare una società aperta, inclusiva, sostenibile ambientalmente, in cui la battaglia contro l’illegalità si faccia veramente, e si sostiene chi è preposto a fare questo. Anche la politica può fare molto con le norme, con le leggi. L’incompiuta della Città della pace di Scanzano Jonico ne è un esempio lampante con una delibera che è arrivata 5 volte in giunta e non è stata mai approvata. La Basilicata è a questo punto qui e quello che si farà nei prossimi anni le darà una connotazione più precisa».
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