14 minuti per la lettura
POTENZA – Capitan America è esistito. Davvero, è esistito. Ed era lucano. O meglio oriundo. Non si chiamava Steve Rogers ma Vito Rocco Bertoldo.
Prova a sentire la storia e poi di’ se non ci rivedi il supereroe della Marvel: giovane americano, durante la Seconda Guerra Mondiale, vuole partire per combattere i nazisti. Alla visita per l’arruolamento viene scartato. Ma tanto fa che riesce a trovarsi in prima linea. E lì, da solo, respinge un’intera compagnia di soldati tedeschi, resistendo per due giorni di fila contro i nemici armati di mortai e anche contro i panzer.
Impressionante, no? Certo, questa è la vicenda per grandi linee. Se t’interessa, se vuoi conoscere più nel detaglio la storia di questa incredibile figura dal sangue lucano, continua a leggere ciò che è stato possibile mettere insieme da decine di documenti sparsi ovunque.
La tomba del soldato
Sezione C, sito 52-A. Vicino al pennone della bandiera e alla cappella, nel punto focale del viale che corre lungo il Golden Gate National Cemetery a San Bruno, in California. Lì, nel cimitero dei veterani di guerra, trovi la tomba di Vito Rocco Bertoldo. Nulla di che, una sottile lapide bianca con poche scritte incise in nero. Scarse le informazioni: nato il primo dicembre del 1916, morto il 23 luglio 1966. Il grado con cui si è congedato dalla Seconda Guerra Mondiale, master sergeant, sergente maggiore. E quell’altra scritta, Medal of Honor.
Medaglia d’Onore, la più alta onoreficenza militare americana. Quasi tutti l’hanno ricevuta alla memoria. Lui è fra i pochi a essere uscito indenne dall’impresa che ha impressionato tutta la catena di comando militare, su su, fino al Presidente in persona che gliel’ha appuntata al petto.
«Siamo così orgogliosi di vivere in Bertoldo Road, la strada che ti è stata dedicata. Abitiamo in quello che è il tuo alloggio militare nell’esercito. Grazie per i tuoi sacrifici da chi ha servito per la Marina Militare e da mio marito. Ti teniamo nei nostri pensieri e nelle nostre preghiere, Vito»: questo di Victoria e Jeff da Park Forest, nell’Illinois, è uno dei tanti, tantissimi messaggi dedicati a Bertoldo e che puoi leggere sul registro delle visite di Find a Grave, un portale internet che ti connette a tutte le inumazioni in terra d’America.
Le origini del soldato
Hai presente l’impressione che fanno film come “Die Hard” o come i vari Rambo? Vedi una persona che, da sola, mette in scacco un esercito di terroristi o di guerriglieri e, pur godendo dello spettacolo, non puoi fare a meno di pensare: «Boom! Ma dai! Nessuno potrebbe davvero fare quelle cose».
Bene. Quello che ha fatto Vito Rocco Bertoldo, dietro lo sguardo da miope, nel suo fisico poco atletico, va oltre. Eppure è tutto vero. E’ tutta storia.
Rocco Bertoldo – il padre – nasce a Tricarico il 24 settembre del 1888. Come tanti della sua generazione, s’imbarca per gli Stati Uniti. Non è facile capire quando e come. Dai registri consultabili delle migrazioni risulta un Rocco Bertoldo (compatibile con il papà del nostro eroe) che parte nel 1906, dal porto di Napoli. La nave si chiama “Germania”, costruita da Chantiers et Ateliers de Provence a Port de Bouc, Francia, tre anni prima. Dei 1.454 passeggeri che i motori Steam Triple Expansion trasportano a 15 nodi l’ora dal Mediterraneo a New York, solo 54 viaggiano in prima classe. Gli altri 1.400 in terza. Per la cronaca la nave, ribattezzata Britannia nel 1914, sarà demolita in Francia nel 1927. Bertoldo è il passeggero numero 104097120176. Arriva a Ellis Island l’11 aprile.
Sarà minatore nelle miniere di carbone e poi impiegato comunale fino alla pensione. A Decatur, nell’Illinois, quando Rocco Bertoldo scende nelle gallerie sotterranee a picconare il carbone, di immigrati italiani ce ne sono pochi, meno di cento persone su circa 43.000 abitanti.
Il carattere del soldato
Nel 1920 a Decatur c’è un sindaco che miete voti e protezione anche all’interno del Ku Klux Klan, la famigerata associazione di razzisti che si macchiò di ogni genere di sopruso e crimine. E dire che Decatur è la città in cui aveva vissuto i primi anni Abraham Lincoln, il presidente antischiavista.
Il piccolo Vito Rocco cresce in una temperie culturale e sociale che lo marchia a fuoco, lo stesso fuoco che brucia una croce nel cortile di una famiglia irlandese del suo quartiere, colpevole di essere cattolica. I Klansmen infatti – fortemente protestanti – odiano i neri ma anche i cattolici. Lo è anche la famiglia di Vito Rocco.
E i razzisti hanno sempre ragione: la polizia locale è piena di esponenti del Klan assunti dal primo cittadino.
La mamma Mary Antonacci Bertoldo muore a ventisei anni il 27 aprile 1921. I funerali fanno scalpore perché sono accompagnati da una banda (la Goodman Band) che suona e perché molti italoamericani («Un inusuale numero di persone», scrive il giorno dopo il locale Herald & Review a pagina 3) vengono da tutto l’Illinois per assistervi. Rocco sposerà in seconde nozze, nel 1922, Angelina Grosso.
Il piccolo Vito Rocco – nato a Decatur il primo dicembre del 1916 – insieme a quattro fratelli finisce in un orfanotrofio: il padre non può certo portarseli nella miniera di Macon County. Vito terminerà i suoi studi dopo soli otto anni di scuola alla St. Patrick. Sentirà su di sé, per tutti gli anni scolastici, una doppia ostilità, come immigrato e come cattolico. Il suo carattere – insofferente nei confronti di chi discrimina, di chi crea ghetti – comincia a formarsi lì.
Anche Vito Rocco comincia come minatore di carbone. Poi diventa autista dei camion della Oakes Products, che produce parti di automobili (nel 1932 brevetta un tipo di serratura). L’azienda a un certo punto si converte alla produzione di munizioni per i diversi fronti della Seconda Guerra Mondiale.
Te lo figuri questo giovane dal sangue lucano che trasporta casse di proiettili da Chicago e la sera se ne torna a casa? Se hai capito già com’è fatto, comprenderai bene quanto voglia entrare in azione.
L’arruolamento del soldato
Nel 1942 Bertoldo decide di arruolarsi. Ma la visita di leva non va bene, e basta vedere una foto del giovane per capire perché: davanti agli occhi ha due oblò. La sua vista è assai scarsa e quindi non va bene per il fronte. E’ un 4-F, «non accettabile per il servizio militare». Peggio solo chi ha perso un familiare in guerra oppure oramai è troppo anziano.
Ma Bertoldo insiste, torna e così ne approvano l’impiego nella polizia militare. Da lì riesce, chissà come, a entrare in fanteria: 42esima Divisione, 242esimo Reggimento, primo Battaglione, Compagnia A. E’ il dicembre 1942. La chiamano “Rainbow Division”, Divisione Arcobaleno: è un crogiuolo di etnie e provenienze, in cui si ritrovano soldati che arrivano da ogni angolo degli Stati Uniti, in particolare dalle file della Guardia Nazionale.
Bertoldo dunque parte ma non certo per la battaglia: è dirottato nelle cucine come cuoco.
C’è la Francia da liberare. E’ il Fronte Occidentale. Sul posto, nelle retroguardie, tra i fornelli a spignattare per preparare il rancio, Bertoldo soffre: il suo sogno – combattere in prima linea – è a un soffio ma lui è lì con il grembiule sulla divisa.
Ogni giorno sbuffa, sbatte coperchi e stivali, litiga continuamente con il “sergente della cucina”, come ricorderà nel 1995, in una lettera scritta ai compagni veterani, il comandante della compagnia, l’allora capitano William R. Corson: «Avevo un solo problema nella compagnia. Era Vito Rocco Bertoldo».
Quando i tedeschi sferrano la potente controffensiva passata alla storia come Operazione Nordwind, in prima linea c’è necessità di forze fresche. Vengono a chiedere tre volontari nella Compagnia A per fare le guardie davanti al comando. L’inviato del quartier generale non ha ancora fatto in tempo a dirlo che il capitano Corson ha già indicato il primo nome: «Ho detto al primo sergente che il cuoco, Vito Bertoldo, era il numero uno per quel compito. Buona liberazione, ho pensato».
Bertoldo, ovviamente, nemmeno ascolta la notizia che è già sull’attenti e pronto a partire. E’ raggiante. Così anche il capitano Corson, che finalmente non avrà più noie nelle cucine. E’ il dicembre del 1944.
Il destino del soldato
Nel frattempo, ti faccio fare un volo dal campo americano a quello tedesco. L’esercito nazista avanza. L’Operazione Nordwind è l’ultima occasione di Adolf Hitler per recuperare il terreno che ha perso. Il 25esimo Panzer Grenadier e la 21esima Divisione Panzer affrontano il 5 gennaio 1945 tre reggimenti della Divisione Arcobaleno nei pressi di Strasburgo.
Obiettivo: prendere le cittadine francesi di Hatten e Rittershoffen, nel Basso Reno, in quel momento in mano agli alleati. I tedeschi sono soldati consumati, rotti a ogni battaglia.
La 42esima Divisione americana invece è fatta di militari sostanzialmente inesperti. I tedeschi hanno gioco facile nell’aggirarli, disperderli, fare prigionieri.
Nella disperazione del momento, viene chiesto a Bertoldo di coprire la ritirata dei soldati che devono spostare in fretta e furia il quartier generale.
Qui il destino di Vito Rocco Bertoldo fa perno. Qui si incrociano i venti di ciò che lui aveva cercato disperatamente di essere e ciò che umanamente è. Qui si combinano tutti i fattori che lo hanno forgiato. Il Ku Klux Klan bianco, anglosassone e protestante che gli ha infuso la voglia di non guardare il colore della pelle o la parlata di chi gli sta vicino. Le miniere di carbone in cui le mani sue – e prima quelle di suo padre – si sono annerite. Le sue origini italiane che non può nascondere e di cui è fiero ma che non vuole siano un ostacolo nel sentirsi pienamente americano. Il desiderio forte, che pulsa nelle vene, di essere accettato. Il senso del dovere trasmessogli da papà Rocco da Tricarico.
Capisce il motivo per cui si trova in questo posto, a migliaia di chilometri da casa, la prospettiva di essere ucciso e abbandonato ai corvi sulla strada su un piatto della bilancia, sull’altro piatto la possibilità di fare davvero, finalmente, la differenza per i suoi amici, i suoi compagni di battaglia.
Il coraggio del soldato
Bertoldo entra nella stanza che fino a quel momento ha ospitato il quartiere generale. Cassetti aperti, fogli svolazzanti, fili penzolanti.
Lui, esonerato dal servizio militare, classificato 4-F per la vista precaria, fissa gli occhi sul mirino di una mitragliatrice.
Quello che segue non è il racconto di un reduce fanfarone che la spara grossa la sera con gli amici al bar. E’, con parole diverse, la motivazione della Medal of Honor, documento ufficiale del corpo dei Marine.
Vi si legge che Vito Rocco combatté con estrema «gallantry», che non è certo «galanteria», ma valore. E’ un termine aulico, antico, che viene da altre epoche, dal coraggio dei membri della cavalleria.
Vito Rocco si trova a difendere ben due posti di comando «contro l’assalto di potenti forze di fanteria e corazzate che avevano invaso la principale linea di resistenza del battaglione».
Aspetta. Si sentono i rumori delle forze nemiche che si avvicinano. I cigolii sinistri dei cingoli, la cadenza asimmetrica degli stivali, i motori dei blindati.
Poi, di colpo, eccoli davanti. E Vito Rocco diventa Gary Cooper in Mezzogiorno di Fuoco: lascia lo stabile che deve difendere ma solo per piazzarsi a gambe larghe per la strada con la sua mitragliatrice.
Su di lui comincia a piovere fuoco e piombo: i nemici sparano con le pistole, con i fucili mitragliatori, anche con un Panzerabwehrkanone detto Pak, il temutissimo cannone anticarri da 88 millimetri.
Poi, quando sono davvero troppo vicini, torna nell’edificio e continua a sparare da una finestra. I nemici sono a 75 metri di distanza, fanno un fuoco d’inferno, lo prendono di mira anche con il cannone dei carri armati. Un colpo è più fortunato degli altri: Vito Rocco probabilmente lo sente arrivare ruggendo nell’aria. Poi, l’aria esplode. Vito Rocco vola nella stanza ma lo spirito di Tom Mix evidentemente lo assiste: come fosse niente si rialza, si piazza di nuovo alla finestra e riprende a sparare.
Un carro armato scorta due autoblindo. Dai mezzi escono venti soldati nazisti. Bertoldo attende che nessuno sia più protetto dalle corazze dei blindati e poi apre il fuoco. Li falcia tutti.
Arrivano nuovi ordini, bisogna arretrare ancora di più. Vito Rocco non fa una piega: copre per un’intera notte – una lunghissima notte di tentativi di agguato dei nemici sempre frustrati dalla tenacia del soldato italoamericano – il ritiro dei compagni.
Arriva l’alba. Vito Rocco esce dallo stabile, attraversa la strada e si piazza in un altro edificio.
Da lì resiste per un’intera mattinata. Spezza un tentativo rabbioso dei nazisti: sul terreno ne resta qualcuno.
Un panzer allunga il cannone fino quasi a sfiorare di nuovo la finestra dietro la quale si trova Vito Rocco. Spara. Questa volta intervengono alcuni compagni che, con un bazooka, fermano il carrarmato tedesco.
Bertoldo è di nuovo alla sua postazione, stordito ma sempre micidiale: falcidia altri nemici. Cala la seconda notte. Ecco l’occasione per evacuare definitivamente i locali e andarsene tutti via. Ma oramai i tedeschi sono inarrestabili nella loro furia. Grandina una gragnuola di colpi di ogni calibro.
Vito Rocco comincia a lanciare le terribili Willy Pete, come vengono chiamate con macabro umorismo le granate al White Phosphorus, il fosforo bianco. La notte si illumina, ogni lampo è una vampata di calore terribile. I tedeschi ripiegano.
Ma poi un rombo. Un altro panzer, lanciato in corsa. Arriva vicinissimo, a 50 metri. E apre il fuoco. Centra la machine gun, la mitragliatrice di Vito Rocco che finisce in mille pezzi. Lui si ferisce alla mano. Sembra arrivata la sua ora. Potrebbe fuggire, cercare di salvarsi da quella che ora sembra una fine annunciata.
Ma Vito Rocco è un gatto, ha molte vite da sfruttare. Torna alla finestra, questa volta con un fucile. Lo tiene con un solo braccio mentre l’altro sanguina. Un fucile contro un’orda di nazisti. Eppure, colpo dopo colpo, resiste ancora delle ore.
Poi arriva l’ordine: ritirata totale. Sono tutti via. Non c’è più nessuno da proteggere. E così Vito Rocco, dopo due giorni di combattimento in solitaria a coprire le spalle dei compagni, abbandona finalmente la postazione.
La gloria del soldato
Quello che segue non è un congedo premio: Vito Rocco continua a combattere fino alla fine della guerra (e a meritarsi praticamente tutti i riconoscimenti esistenti: il Combat Infantryman Badge, la Bronze Star Medal, il celebre Purple Heart e addirittura la Croix de Guerre da parte dello Stato francese). Sarà promosso sul campo sergente maggiore, il massimo grado da sottufficiale.
La sua impresa non è passata inosservata. Lo vediamo fotografato su un giornale del 15 dicembre 1945 mentre un barbiere gli acconcia i capelli. Il titolo: «L’eroe di Decatur e la famiglia in viaggio per la cerimonia». S’intende la cerimonia per ricevere la Medal of Honor. A infilargliela al collo, il 18 dicembre davanti al papà, sarà il presidente Truman. Ma alla cerimonia c’è anche il generale in capo delle forze alleate Dwight Eisenhower – il popolare “Ike”, Maresciallo di Campo – che otto anni più tardi succederà proprio a Truman alla Casa Bianca prima di John F. Kennedy.
La missione del soldato
Hai presente quei pugili che vincono, magari anche di misura, e poi intervistati si vantano di essere i migliori e fanno la ruota come i pavoni? Beh, con Vito Rocco è un’altra storia.
«Tutto quello che ho fatto è stato cercare di proteggere alcuni altri soldati americani dall’essere uccisi – dirà Bertoldo ai giornalisti – In nessun momento ho pensato che stavo cercando di vincere qualcosa».
«Immagina la mia sorpresa nel 1945 – scriverà molti anni dopo il simpatico Corson, congedatosi come colonnello – quando a Camp Atterbury, nell’Indiana, presi una copia del Chicago Tribune e vidi in prima pagina una foto del presidente Truman che appuntava la medaglia d’onore del Congresso all’ex cuoco».
Lui non è d’accordo con la modestia espressa dal protagonista: «Bertoldo era una task force di un solo uomo che non potevano sconfiggere», commenterà infatti Corson.
E Joseph Taluto, che ha comandato la 42 Division in Iraq e presieduto l’associazione dei veterani della Rainbow Division, ha aggiunto: «E’ stata la devozione di Bertoldo al dovere e ai suoi compagni soldati a lasciare un’impressione duratura. Vito ha ovviamente preso le sue responsabilità sul serio e senza compromessi. Ha mantenuto la sua posizione di volta in volta e ha fatto la differenza».
Netflix ha prodotto nel 2018 una serie di otto docudrama, ossia documentari interpretati anche da attori, intitolata Medal of Honor. Fra i produttori esecutivi Robert Zemickis, regista di “Ritorno al futuro” e “Forrest Gump”. Otto storie di altrettanti premiati scelti fra gli 853 destinatari della medaglia dalla Seconda Guerra Mondiale a oggi. A detta di molti l’episodio più emozionante è quello dedicato all’impresa di Bertoldo, impersonato da Ben Schwartz, attore molto noto negli Usa.
La pace del soldato
Vito Rocco Bertoldo, congedatosi definitivamente nel febbraio 1946, lavorerà come rappresentante di contatto per la Veterans Administration di San Francisco, in California, aiutando i veterani a ottenere i benefici che spettano loro. Poi diverrà imprenditore nel campo della “architettura paesaggistica”.
Nel 1966, un nemico implacabile: il cancro. Muore il 23 luglio di quell’anno a Martinez, nella East Bay californiana. Ha 49 anni.
Sì, hai ragione: Vito Rocco Bertoldo non era Capitan America. Non era di carta. Era un uomo vero.
«Il modo migliore per onorare i morti è cercare di far pace con i vivi che hanno dato i migliori anni della loro vita nell’interesse della pace», aveva detto una volta.
E se un soldato – un guerriero – del genere in una sola frase cita due volte la parola “pace”, puoi scommetterci: un motivo dev’esserci.
COPYRIGHT
Il Quotidiano del Sud © - RIPRODUZIONE RISERVATA