L’incontro al Polo bibliotecario nazionale di Potenza
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All’incontro “La mafia e i suoi linguaggi” don Marcello Cozzi ha puntato il dito contro l’anonimato di alcuni suoi accusatori
POTENZA – «Mi fa più paura chi i proiettili te li manda scrivendo articoli di giornale».
È una denuncia al sistema dell’informazione quella lanciata da don Marcello Cozzi, di fronte agli studenti dei licei “Galileo Galilei” e “Pier Paolo Pasolini”, e della scuola media “Luigi La Vista”. Una denuncia accorata, applaudita dal pubblico presente all’incontro “La mafia e i suoi linguaggi”, e dagli altri relatori convocati dall’ex presidente reggente della Corte d’appello di Potenza Alberto Iannuzzi: l’ex procuratore capo del capoluogo lucano, e attuale procuratore capo di Catania, Francesco Curcio; e l’ex presidente della Commissione bicamerale antimafia Rosy Bindi.
UN INCONTRO CON LE SCUOLE OCCASIONE PER LA DENUNCIA DI DON MARCELLO COZZI
L’occasione per l’atto d’accusa del sacerdote, già vicepresidente nazionale di Libera e coordinatore dell’Istituto sui fenomeni delle mafie e della corruzione del Dipartimento di Diritto canonico della Pontificia Facoltà Teologica di San Tommaso di Napoli, è stata la domanda di uno degli studenti presenti nella sala conferenze del Polo bibliotecario nazionale di Potenza.
Di qui la risposta, implicita, alle violente reprimende comparse di recente su altre testate locali in seguito alla condanna di don Cozzi al risarcimento di 30mila euro a favore dell’ex direttore generale del San Carlo, Michele Cannizzaro. Un risarcimento per danni da diffamazione in relazione alla riproposizione, a marzo del 2008 sul Quotidiano del Basilicata, di un articolo a firma del sacerdote già comparso qualche mese prima su una nota rivista a diffusione nazionale, Micromega. Di qui l’attestazione di solidarietà al sacerdote pubblicata nei giorni scorsi da Beppe Giulietti, già deputato, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana (Fnsi), segretario Usigrai, e fondatore dell’associazione Articolo21,
Il coparroco della chiesa di Sant’Anna e Gioacchino di Potenza ha poi puntato il dito sull’anonimato dietro cui si celano gli autori di alcune di quelle reprimende nei suoi confronti. Un tema che da qualche tempo si ripropone con sempre maggiore frequenza dato il proliferare sui social e su alcune testate di informazione locale di pseudonimi e false identità per nascondere l’origine di critiche e ammiccamenti dati in pasto ai lettori in buona fede. Oltre che per garantirsi l’impunità in caso di denunce o richieste di risarcimento per reati vari.
«Quelli che ti mandano a dire certe cose – queste le parole di don Cozzi – dovrebbero avere la capacità di metterci la faccia, ma non ce la mettono perché in effetti hanno paura delle loro bassezze».
LA “MAFIA NEGATA” UNA DELLE PAURE CONFESSATE DAL PARROCO
Altra «paura» confessata dal sacerdote è stata quella della “mafia negata”. Un riferimento evidente ai tanti processi lucani che si sono arenati nel tentativo di provare la mafiosità di una serie di condotte e di personaggi della malavita locale e della zona grigia sopra di loro: medici, commercialisti, editori e quant’altro.
«Mi fa paura quando la mafia non si chiama mafia», ha ammesso don Cozzi. «E mi fa paura quel diffuso atteggiamento servile nei confronti dei grandi potenti. Non mi fanno paura i padroni, mi fanno paura i servi».
Durante la discussione, coordinata da Iannuzzi, il fondatore di Libera Basilicata e il neo procuratore di Catania, Curcio, hanno convenuto anche sulla necessità di modificare la definizione codicistica di associazione mafiosa per riuscire a perseguire in maniera efficace l’evoluzione delle organizzazioni criminali. Proprio nel tentativo di eludere l’azione repressiva degli organi inquirenti.
«L’attuale articolo 416 bis del codice penale – ha spiegato Curcio – si riferisce a una mafia che in prima battuta usa la violenza e poi la parola. Oggi avviene in contrario e spesso la paura è talmente tanta che non c’è bisogno della violenza».
L’ex procuratore capo di Potenza ha sottolineato, infine, l’eterno gioco di specchi dietro cui si nascondono le mafie.
«Il mafioso ha bisogno di far sapere chi è e che è inserito nella catena di comando». Ha spiegato Curcio. «Ha bisogno di far trapelare di essere in rapporti con chi conta e di essere capace di manipolare il potere pubblico. Ma non può dirlo ad alta voce perché altrimenti rischierebbe di attirare l’attenzione delle autorità».
PRESENTE ALL’INCONTRO ANCHE ROSY BINDI
Molto seguito l’intervento di Bindi che si è soffermata sulla capacità del mafioso di creare consenso attorno a sé, offrendosi, in cambio dell’«argenteria», per risolvere problemi di vario tipo a quanti gli aprono le porte di casa.
«Il mafioso viene accettato in alcune comunità perché fa il bene della comunità». Ha evidenziato l’ex parlamentare. «Si sostituisce allo Stato». Contro la corruzione e le raccomandazioni si è scagliato, infine, Iannuzzi, enfatizzando il danno per la collettività provocato dal vantaggio indebito riconosciuto a un singolo si riferisce a una mafia che in prima battuta usa la violenza e poi la parola. Oggi avviene in contrario e spesso la paura è talmente tanta che non c’è bisogno della violenza».
L’ex procuratore capo di Potenza ha sottolineato, infine, l’eterno gioco di specchi dietro cui si nascondono le mafie.
«Il mafioso ha bisogno di far sapere chi è e che è inserito nella catena di comando». Ha spiegato Curcio. «Ha bisogno di far trapelare di essere in rapporti con chi conta e di essere capace di manipolare il potere pubblico. Ma non può dirlo ad alta voce perché altrimenti rischierebbe di attirare l’attenzione delle autorità».
Molto seguito l’intervento di Bindi che si è soffermata sulla capacità del mafioso di creare consenso attorno a sé, offrendosi, in cambio dell’«argenteria», per risolvere problemi di vario tipo a quanti gli aprono le porte di casa.
«Il mafioso viene accettato in alcune comunità perché fa il bene della comunità». Ha evidenziato l’ex parlamentare. «Si sostituisce allo Stato».
Contro la corruzione e le raccomandazioni si è scagliato, infine, Iannuzzi, enfatizzando il danno per la collettività provocato dal vantaggio indebito riconosciuto a un singolo.
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