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POTENZA – La storia di un’azienda – come evidenzia la mostra, che termina oggi, della ditta Avena a Potenza – può incrociarsi con la storia della città in cui opera fino a identificarsi con essa. In tempi di globalizzazione spinta che smaterializza spesso il lavoro dal territorio in cui si svolge, il fatto che un marchio si leghi così a fondo con la sua comunità è una buona notizia, oltre che un vantaggio per entrambi.

E dire che il capostipite, Michele Avena, non era potentino e neanche lucano, ma veniva da Ruvo di Puglia (Ba), come diversi altri che negli anni fecero fortuna nel capoluogo della Basilicata.

A raccontare la storia di famiglia è Anna Avena, nipote di Michele, che si muove fra i cimeli con la sicurezza della padrona di casa e la passione della custode di memorie. È lei ad accompagnare i visitatori lungo il percorso allestito in uno dei capannoni dell’azienda.

Dunque Avena senior, nei primi anni del Novecento, è un ambulante che cerca di piazzare le sue stoviglie. A Brindisi di Montagna incontra la donna che poi sposerà (figlia di un commerciante anch’egli di piatti e bicchieri). A Potenza nel 1926 – due anni dopo aver aperto il suo negozio di articoli per la casa – decide di mettere su una piccola produzione di gassosa, come tanti altri all’epoca in città. La ditta si ingrandisce con l’ingresso del socio Giuseppe Gallucci. Vendono anche ghiaccio che, in mancanza di frigoriferi e ghiacciaie, consentono ai dettaglianti di vendere bibite sempre fresche.

In corso Garibaldi, di fronte a quello che tutti oggi conoscono come Palazzo Luongo, vengono realizzati nel 1928 i nuovi stabilimenti. Sotto i figli di Michele, Alfredo e Alberto, si prende una decisione che sarà di grande importanza: concepire e preparare una ricetta inedita della gassosa. Il nuovo sapore – che da allora e fino a oggi caratterizza la bevanda e la fa apprezzare – sarà il vero marchio di fabbrica della bibita, a dimostrazione che prima della pubblicità e del marketing (il fumo) viene il prodotto (l’arrosto).

La cavalcata nei decenni si può seguire correndo parallelamente a diverse evoluzioni aziendali, a cominciare da quelle del contenitore della gassosa. Si comincia con una sorta di sifone da self, elegante ma meno maneggevole rispetto ai modelli che seguiranno.

Subito dopo, una bottiglia dalla foggia assai particolare, strozzata nella parte superiore e contenente una biglia che funge da tappo una volta raggiunto il livello di liquido desiderato. Bottiglia dalle linee sinuose ma che offre una nutrita schiera di problemi. Abbandonata, dunque, per un’altra bottiglietta, questa volta con un tappo in ceramica recante il marchio in testa. Il nome dell’azienda è presente anche sul fianco, in rilievo sul vetro.

Qualche altro anno e si arriverà al formato definitivo, quello ancor oggi riconoscibile. L’evoluzione si può seguire anche relativamente al simbolo del marchio – una spiga di avena che fa del cognome praticamente un ideogramma – e al nome stesso della ditta, all’inizio in corsivo perché si attribuiva a questo stile una maggiore ricercatezza e da un certo punto in poi in stampatello.

Storia a parte per l’etichetta: il verde che la rende immediatamente riconoscibile, gli slogan (gli antenati del “claim”) come “La bibita dei giovani” per la Boys Cola, tentativo di produrre una cola locale, e poi le etichette speciali: ad esempio quelle nate quando Avena è stata sponsor del Potenza Calcio e ha lanciato le bottiglie con una lettera stampata sopra. Collezionandone sette diverse si poteva comporre la parola “Potenza” (ma alcuni cittadini creativi, forse esperti enigmisti, le hanno usate per formare tutt’altre parole). O le bottigliette del “nuovo corso”, impreziosite da simboli tutti da scoprire (basti sapere che uno di questi rimanda a una casa al mare arricchita da un albero di limoni).

Ma i binari storici forse più interessanti da percorrere sono quelli legati a temi più impegnativi, come quello del lavoro. Perché la ditta di lavoro ne ha dato tanto ai potentini («E con un’attenzione ai diritti dei lavoratori, a cominciare dal salario, totale», assicura Anna), e in particolare alle donne, fino a cinquanta alla volta, che hanno incartato per lustri le caramelle, altro prodotto della ditta.

Per continuare con i tanti dipendenti, la foto di uno dei quali ha commosso fino alle lacrime un visitatore nei giorni scorsi: era il suo papà. E di foto ce ne sono diverse, con quella nota di malia che assicura il bianco e nero magari virato seppia, con quella semplicità e quel rigore che hanno le composizioni fotografiche del passato, con quel profumo di serenità che trasportano fino ai nostri giorni.

«Di momenti duri ce ne sono stati tanti – spiega Anna – così come di passi falsi. Ma c’era anche quel fiuto per gli affari e quella capacità di andare avanti, costi quel che costi, che ha caratterizzato sempre le azioni di mio padre Alfredo e di tutti quelli che hanno guidato questa azienda. E che ci ha consentito sempre di uscire dai periodi bui e di arrivare a oggi in salute».
Si va via dalla mostra con una sensazione di aver appreso un esempio di imprenditoria utile. Di aver ascoltato una storia bella. Di averla assaggiata, si potrebbe dire.

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